“Solitamente bugiardo” non si può dire, perché sarebbe da querela. Ma se un tipo – diciamo così – “solitamente prudente” come Matteo Renzi nove mesi fa disse in pubblico a Cernobbio che “la metà dei dipendenti bancari italiani è di troppo”, gli si deve credere. E l’affermazione spiega gran parte del dramma bancario che sta vivendo l’Europa e, in Europa, l’Italia, con la crisi delle banche venete – Popolare vicentina e Veneto Banca. Un dramma che non nasce e non si concluderà quando finalmente sarà chiaro il domani di quel che resta della Banca popolare di Vicenza e di Veneto Banca, apparentemente prossime alla liquidazione e a veder rilevare una parte dei propri “asset” da Intesa Sanpaolo: sempre che l’operazione annunciata si compia, cosa tutt’altro che certa.
È certo, invece, che nel giro di cinque anni l’industria del credito non somiglierà a com’è oggi, e in tutto il mondo. Il denaro verrà intermediato e custodito in mille altre modi, oltre che in banca. Anche molti banchieri hanno iniziato a dirlo ufficialmente. Tempo vent’anni e nel mondo sopravvivranno una ventina di banche globali e una manciata di comprimari specializzati. La forza della Rete renderà vane le difese dell’esistente: non c’è casta, non c’è monopolio che tenga, quando la tecnologia trova nuovi modi per fare senza costi cose che si facevano a costi salatissimi. Dunque le crisi da “cattiva gestione” – come quelle della Banca popolare di Vicenza e di Veneto Banca, i cui responsabili la faranno probabilmente franca – sono soltanto avvisaglie.
In quest’ottica, tutto il resto trascolora: le polemiche politiche, le schermaglie tra concorrenti. Certo, fa discutere l’offerta di Intesa Sanpaolo nel caso-Veneto: rilevare a un euro la “polpa” sana degli istituti – cioè i crediti in bonis, e solo le partecipazioni gradite -, lasciando a carico dell’erario pubblico la copertura di costi che si aggireranno alla fine sui 12 miliardi. Fa discutere non solo qualche osservatore critico, ma anche la commissaria alla Concorrenza europea Margrethe Vestager, che secondo alcune fonti ufficiose non avrebbe ancora dato il suo ok, considerando quei 12 miliardi come “aiuti di Stato” (e del resto, cos’altro sono?). Fa discutere, ma – e speriamo la Vestager lo capisca – è oggi il male minore.
La Reuters ha scritto che qualche giorno fa quattro fondi stranieri avrebbero offerto 1,6 miliardi per investire nelle due venete – i fondi Sound Point Capital, Cerberus, Attestor e Varde con l’aiuto di Deutsche Bank come advisor finanziario -, ma che la loro offerta non è stata presa in considerazione. Sarà. Del resto, come considerare preferibile un’offerta del genere che non provenendo da una banca non prometteva di integrare in un’azienda già attiva nel credito quel che resta delle attività creditizie delle venete? Quel miliardo e seicento milioni inoculato nelle due banche non si sarebbe forse dimostrato, come appare ovvio dai conti che circolano, tanto poco quanto niente, del tutto inutile, salvo che a dare la palla a quattro soggetti stranieri per usi futuri diversi degli asset residui presi con le due banche?
Certo: si poteva farla meglio e farla prima questa gara senza concorrenti (e dunque senza precedenti), chiarendo a tutto il mercato che era in vendita solo la parte sana delle due aziende, aprendo magari una fase di possibili rilanci per chi volesse offrire soldi per quel perimetro di attività e solo quello a chi avesse offerto di più. Non è stato fatto, come nient’altro è stato fatto, salvo un piano di ristrutturazione professionale e anche serio delle due venete, firmato da Fabrizio Viola, che non a caso dovrebbe restare tra i commissari liquidatori, ma privo del presupposto essenziale: poter realmente incassare quei 6-7 miliardi di nuovi capitali che sarebbero stati il minimo indispensabile per tentare di mandare avanti le aziende da sole.
La colpa originaria nella gestione della crisi è stata la debolezza e insipienza incredibili del governo italiano che, dopo aver emanato un decreto gracile e inconcludente il 21 dicembre scorso, ha lasciato la Commissione europea a indugiare su di esso senza autorizzarne il varo e le due banche ad avvizzire, con un’emorragia continua di depositi, clienti e attività. Un comportamento moralmente deprecabile, se si pensa ai danni che si potevano prevenire agendo con tempestività, se si pensa alle banche sane partecipate dalle due ammalate, che sono state impiombate a loro volta in uno stallo che certo non le ha potuto giovare.
Ma tant’è: anche queste responsabilità politiche rischiano di rimanere senza sanzioni. Capirci qualcosa è difficilissimo, la protesta populista grillina è dozzinale e sommaria come un pernacchio e quindi non morde. Dire che Padoan sia stato così debole con l’Europa per prenotarsi un ruolo nel futuro ministero unico dell’Economia è suggestivo e in tanti lo pensano, ma è un’inutile insinuazione priva di riscontri possibili e oltretutto improbabile. Quel che resta indiscutibile è che il settore bancario è alla vigilia di una crisi senza precedenti, a confronto della quale quella delle agenzie di viaggio o dei giornali – altri industrie devastate da Internet – apparirà come una carezza. La tempesta è appena iniziata. Non si può andare troppo per il sottile, bisogna (sarebbe stato necessario…) solo fare in fretta.
L’intervento di Intesa Sanpaolo seguirebbe quello analogo del Santander in Spagna, e – più in grande – quello di Ubi nelle tre banche “risolte” nel 2015 (Etruria e le altre) e di Bper nella quarta. Anche in questi casi minori lo snodo fondamentale è stato l’Europa. La nostra inesistenza in termini di peso negoziale presso le autorità europee è stata già ampiamente collaudata, e non stupisce più nessuno; ma lo strapotere delle autorità centrali rispetto a quelle nazionali è un dato che prima o poi impensierirà tutta l’Europa, perché a Bruxelles alligna ormai una casta burocratica che prevarica perfino il pur colossale potere dei due “azionisti di maggioranza” dell’Unione, cioè Germania e Francia.