Diciannove mesi fa – era fine novembre 2015 – il Consiglio dei ministri si riunì brevemente di domenica per decretare il fallimento pilotato di quattro banche (Eruria, Marche, ecc.). Sul Sussidiario scrivemmo (fra poche voci) che la mossa del governo non convinceva per nulla: che era a un tempo tardiva e affrettata, che la distruzione di fiducia prodotta dal provvedimento di risoluzione dentro e attorno il sistema bancario italiano prometteva solo di aggravarne i problemi. Oggi non ci sentiamo di commentare diversamente l’ennesimo decreto domenicale dell’esecutivo sul fallimento pilotato di Popolare di Vicenza e Veneto Banca.



Pesa anzitutto l’aggravante di non aver fatto minimo tesoro dalla lezione delle risoluzioni del 2015. La prima e più importante era e resta che le banche decotte vanno fatte uscire dal sistema appena possibile, non il più tardi possibile. Lo ha ripetuto nelle ultime Considerazioni finali il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: forse per rammentare che di lui – capo della vigilanza nazionale e membro del consiglio Bce – a fine 2015 (e anche dopo) veniva pregiudizialmente ignorato dal premier Matteo Renzi e dal ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan.



È vero peraltro che la situazione via via più problematica della Popolare di Vicenza era ben nota in via Nazionale fin dal 2001. Ma è vero anche che dal 2002 l’ex dominus della Vicenza – Gianni Zonin – è stato anche nel mirino della magistratura, ma per certi versi anche sotto una paradossale protezione. Sono quasi due anni che Zonin è sotto indagine da parte della Procura di Vicenza (solo per ostacolo alla vigilanza) e mentre il crac della banca ha presentato via via conti a dieci zeri in euro ai vecchi azionisti, alle banche e fondazioni salvatrici di Atlante e ora anche ai contribuenti, il principale responsabile è sempre stato libero: anche di mettere in salvo i suoi beni privati. (Nei prossimi giorni uscirà un libro estremamente inquietante, scritto da Cecilia Carreri: una magistrata che quindici anni fa fu chiamata a indagare su Zonin e la Vicenza, ma – racconta – venne sistematicamente sabotata dai suoi superiori).



Una seconda lezione indubbia può suonare perfino ovvia: in Italia (ma non solo) l’attività bancaria non riesce mai a tenersi a distanza di braccio dal momento politico. È stato così, nella Prima Repubblica, per il vasto sistema del credito pubblico, dominato dalla Dc e poi anche dal Psi. È stato così per il Montepaschi, andato in dissesto come struttura quasi interna al pci-Pds-Ds, ma anche per Banca Etruria, crollata non prima di essere entrata direttamente nel “giglio magico” di Renzi. Certamente colluse con la politica sono state le due Popolari venete: operanti in territori permeati dalla Lega Nord, ma attratte nondimeno da circoli di potere della Seconda Repubblica (nel “cerchio magico” di Zonin era entrato l’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio e fra i beneficiari di crediti larghi c’era il costruttore romano Alfio Marchini).

Il fallimento di Vicenza e Veneto (già trasformate in Spa) rende definitivamente obsoleto il modello delle vecche Popolari e – per certi versi – sembra dare ragione a posteriori alla controversa riforma-blitz decisa dal govermo Renzi all’inizio del 2015. Ma la crisi del credito cooperativo – grande e piccolo – viene da più lontano:dalla pressione di lungo periodo esercitata dalla finanza globalizzata e mercatista su tutte le forme di intermediazione bancaria, soprattutto quelle storiche dell’Europa continentale. Le Popolari venete – non diversamente dall’Etruria – sono le ultime vittime eccellenti della violenta contaminazione di un oligopolio finanziario che ha voluto sostituirne altri, e ci è riuscito grazie a un affermazone di natura politico-culturale tradotta in radicali cambiamenti di regole.

La direttiva Brrd (correntemente conosciuta come “bail in”) è una delle riforme varate dall’Ue dopo la crisi finanziaria precipitata nel 2008. Quella sui “fallimenti ordinati” non è stata l’unica e forse non la più importante all’interno della nuova Unione bancaria. Certamente ha mostrato tanti limiti quanti ne ha evidenziati quella degli stress test: dei criteri di vigilanza affidati in via centralizzata alla Bce. Se i parametri di supervisione hanno costantemente penalizzato – discriminato – i sistemi bancari deboli, indebolendosli sempre di più, al suo primo, vero banco di prova, il “bail in” si è dimostrato poco utilizzabile, se non inservibile.

Come ha avuto buon gioco nel sottolineare da Chicago Luigi Zingales, la liquidazione delle Popolari venete non è avvenuta “secondo le regole europee”: ma con un éscamotage, negoziato in via politica, che ha consentito al’Italia di utilizzare le vecchie regole nazionali. Qualcuno la considererà una “piccola vittoria” del governo Gentiloni (che giovedì volerà a Berlino dalla cancelliera Angela Merkel) e forse lo è: anche se probabilmente andrà presto ad accumulare il debito politico di Roma verso la nuova Europa franco-tedesca. Sicuramente è una sconfitta – vedremo quanto grande – per gli eurocrati sparsi: che hanno avuto lo scalpo di due medie banche italiane, ma hanno visto mettere strutturalmente in discussione la pretesa di egemonia burocratica su mercato e fisco.