Venerdì scorso a Vienna è stato presentato l’annuale Digital News Report 2017 del Reuters Institute, un mega sondaggio sullo stato di salute del giornalismo globale basato su interviste a 70mila persone in 36 Paesi di tutto il mondo. Insomma, un termometro di una certa affidabilità. E quali sono state le risultanze più chiare? Il consumo di contenuti giornalistici attraverso applicazioni di messaggistica, come WhatsApp e Facebook Messenger, è in crescita in gran parte del mondo, mentre la fiducia nei media tradizionali è bassa, ancorché ancora superiore a quella sui social network. Il 15% degli intervistati afferma infatti di consumare notizie attraverso WhatsApp, rispetto all’8% di solo un anno fa, mentre Facebook e Messenger sono utilizzati oggi dall’8% del totale per ottenere informazioni. Il consumo di notizie attraverso WhatsApp è particolarmente elevato in Malesia (51%), Brasile (47%), Cile (39%) e Spagna (32%), mentre negli Stati Uniti solo il 3% utilizza l’applicazione per informarsi.



Una delle ragioni di questo aumento, lo studio fa notare, è la sicurezza che offre all’utente il sistema di crittografia di WhatsApp, soprattutto in paesi come la Turchia, dove condividere notizie “sensibili” di tenore politico può essere pericoloso. Allo stesso tempo, il consumo di notizie attraverso i social network come Facebook, che era aumentato considerevolmente negli anni precedenti, sembra essere in stallo o addirittura è in declino in alcuni grandi Paesi, come il Brasile, la Spagna o la Francia. Inoltre, il rapporto rivela che la fiducia degli utenti nel complesso nei media è piuttosto bassa: svetta la Finlandia con il suo 62%, davanti a Brasile (60%) e Portogallo (58%) e Spagna (51%), mentre in 13 dei 36 paesi analizzati non si raggiunge il 40% di fiducia, tra cui Argentina (39%), Stati Uniti d’America (38%), Francia (30%) e Corea del Sud (23%). Allo stesso tempo, quasi un terzo degli intervistati (29%) dice che spesso sceglie di non leggere le notizie, poiché queste hanno un “impatto negativo” sul proprio stato d’animo o perché non si fida di ciò che dicono i media . Tuttavia, il 40% degli intervistati in tutto il mondo, crede che i mezzi di comunicazione tradizionali (giornali cartacei, siti mainstream, tg) distinguano bene tra fatti e finzione, percentuale che scende al 24% per i social network. 



Per quanto riguarda i luoghi in cui si consumano le informazioni, la relazione conferma i progressi dei devices mobili, mentre il 46% degli intervistati conferma di leggere le notizie a letto, il 42% durante gli spostamenti sul trasporto pubblico e il 32% in bagno. Inoltre, solo il 13% degli utenti afferma di pagare per le notizie che consuma, una cifra che aumenta in Brasile e in Messico, rispettivamente al 22% e il 18% e che invece cala in Argentina al 10% e in Spagna e Cile con il 9%. In controtendenza, invece gli Stati Uniti, dove l’avvento al potere di Donald Trump ha avuto un forte impatto sul pagamento per i mezzi di comunicazione digitale, passato dal 9% al 16% degli utenti. E questo segnale deve farci riflettere. Molto. 



Perché questo prologo? Perché il dato del Reuters Institute ci dice tantissimo dei tempi che stiamo vivendo e del controllo dell’opinione pubblica attraverso i media, la vera grande sfida globale, altro che Russiagate o scontro da barzelletta tra Stati Uniti e Corea del Nord, già finito un’altra volta in soffitta. Fateci caso: qual è stato l’argomento totale e catalizzante del fine settimana appena trascorso? La siccità. Certamente un qualcosa di inedito nella storia dell’uomo e un unicum dei nostri tempi, vero? Mai prima d’ora l’uomo aveva dovuto confrontarsi con la scarsità di piogge, vero? O con il grande caldo. O, forse, mai prima d’ora c’era stata tanta necessità di nascondere la vera notizia: il fallimento delle due banche venete, il regalo a Intesa Sanpaolo e, di fatto, l’inizio della fine per il nostro sistema bancario, inteso come rete nazionale di supporto al credito. 

Nel momento in cui scrivo questo articolo, il Consiglio dei ministri deve ancora riunirsi per l’approvazione di un decreto legge che fissi lo schema normativo dell’intervento, a partire dalla messa in liquidazione delle due banche e dalla nomina di un collegio di commissari. In base alla procedura individuata e al netto di cambiamenti che intercorrano tra il tempo in cui questo articolo è stato scritto e quello in cui state leggendolo, nelle prossime settimane i nuovi amministratori stabiliranno la scissione di good bank e bad bank, in base alla procedura individuata. Insomma, Popolare di Vicenza e Veneto Banca sono salve, vi hanno detto i giornali, non ha caso letti nel 32% dei casi in bagno, loro luogo di naturale appartenenza. Ancora una volta, come per le quattro banche di renziana memoria, si è arrivati all’ultimo respiro, alla necessità di deliberare alla luce di una lotta contro il tempo: e non perché sia successo qualcosa di strano, qualcosa che non si fosse sostanziato finora. Solo perché l’arma dell’emergenza è l’unica per evitare la ribellione della gente, così come la mistificazione o la minimizzazione del problema da parte dei media. Una volta c’era il “ce lo chiede l’Europa”, stavolta c’era il rischio che questa mattina gli sportelli di quelle banche non riaprissero, scoperchiando il vaso di Pandora del sistema bancario italiano e delle sue criticità ormai croniche, sofferenze in testa. E innescando una crisi sistemica che un governo debole come questo non avrebbe minimamente saputo tamponare, finendone travolto. 

Una situazione durata mesi tra governo italiano, banche coinvolte, Bce e Ue e risoltasi, per magia, nell’arco di un weekend: come per Etruria e socie, tu guarda un po’. E come nel 2011 fu la lettera della Bce al Tesoro italiano e prefigurare il golpe finanziario che in novembre ci avrebbe regalato la troika travestita da loden di Mario Monti, anche oggi è stata l’Eurotower a staccare la spina delle trattative, dicendo chiaro e tondo nel suo comunicato stampa di venerdì, il numero 109 per l’esattezza, che in riferimento ai due istituti in oggetto, «non sussistono tutti i requisiti previsti per una risoluzione». Sbam, ecco creato il precedente, non a caso la Germania ha immediatamente alzato la voce, dicendo no ad aiuti di Stato da parte di Roma verso le due banche venete. Eh già, perché lo Stato – cioè noi – pagheremo un conto bello salato alle pratiche delinquenziali di Giovanni Zonin e soci, in nome della territorialità e della banca dell’ultimo miglio (per non parlare di quei centri di potere e ricatto politico chiamate fondazioni, non a caso l’ossessione di Umberto Bossi quando era alla guida della Lega in versione secessionista). 

Nella bad bank prefigurata dallo schema dovrebbero confluire sofferenze, inadempienze probabili, esposizioni scadute, i crediti in bonis ad alto rischio, i bond subordinati, i rapporti giuridici considerati non funzionali all’acquisizione e gli oneri di ristrutturazione. E chi paga? Pantalone, come al solito. L’importo nominale complessivo dovrebbe avvicinarsi ai 20 miliardi, mentre lo Stato dovrebbe versare una cifra tra 3,5 e 4 miliardi sulla carta, ma, nella realtà, siamo già ampiamente a quota 12 miliardi. Sul piano occupazionale, inoltre, l’integrazione potrebbe determinare circa 4mila esuberi e non è escluso che l’Europa imponga tagli più consistenti. Il costo delle uscite (circa 1,2 miliardi) dovrebbe comunque essere sostenuto dallo Stato con l’iniezione di nuove risorse nel fondo esuberi della categoria, dopo lo stanziamento da 650 milioni effettuato dall’ultima Legge di Bilancio. Sapete cosa significa questo? Che formalmente si è evitata la normativa europea sul bail-in, ma che, in questo modo, entra in azione la normativa nazionale precedente, la quale porterà con sé un salasso pubblico di oltre 12 miliardi, invece che colpire gli obbligazionisti senior della banche venete. 

Insomma, due banche fallite, gestite in maniera criminale, vengono salvate con soldi pubblici: facile capire il perché, non ci si può permettere un caso Etruria 2.0 il giorno del ballottaggio alle amministrative e con una gran puzza di voto anticipato che è tornata nell’aria. Pensate infatti che la Bce abbia deciso da sola per un’accelerazione della faccenda? Sicuramente, state certi che non c’è stata alcuna pressione da parte del governo italiano… Non prendiamoci in giro, Mario Draghi ha salvato la baracca per l’ennesima volta, ma tranquilli che il costo maggiore per questo favore non saranno i 12 e passa miliardi che dovremo sborsare. Così facendo, la Bce ha salvato la faccia a governo e Banca d’Italia, ma, state certi, non lo farà gratis. E altrettanto si può dire per la Germania, il cui nein formale all’operazione era appunto tale, un gioco delle parti: Berlino vuole che l’operazione vada in porto, in modo che passate le sue elezioni, il 24 settembre, potrà mettere sotto diretta tutela il governo italiano in sede di Def. E allora sì, signori, che saranno dolori. Tornerà l’Imu sulla prima casa, si ritoccheranno Iva e tassa di successione, i vincoli di bilancio diventeranno draconiani. Il tutto, per evitare che due banche oggi non aprissero i propri sportelli, a causa di politiche e gestioni dissennate di anni e anni per cui nessun responsabile diretto pagherà. E senza che alcun organo di vigilanza statale o mass media puntuto avessero alcunché da ridire sul dominio incontrastato di Giovanni Zonin sul sistema bancario veneto, capace di piazzare azioni non trattate sul mercato a 62 euro per azioni e spacciando il tutto per poco più che un libretto di risparmio, a livello di rischio. Le prospettazioni per il cliente? Chiedete a Bankitalia, è lei ad averle rese non più obbligatorie nella loro forma più chiara. 

Signori, comunque sia andata a finire nel Consiglio dei ministri di ieri, il 25 giugno 2017 sarà data sa segnare in rosso sul calendario: il fallimento del sistema Italia ha avuto inizio ufficialmente e, paradossi del cosiddetto mercato, questo fatto si sostanzia nell’affarone del secolo per la prima banca proprio del Paese che sta per fare la fine del Titanic. Ecco a voi il vero volto del cosiddetto liberismo, un sistema che possiamo riassumere con la frase di un famoso spot pubblicitario: ti piace vincere facile, eh? Complimenti a Intesa, un capolavoro: ricordate quando, solitario tra la stampa italiana, vi facevo notare l’importanza di quanto stesse accadendo in Spagna con la crisi di Banco Popular, non più tardi di 15 giorni fa? E come è andata, lì? Santander ha fatto esattamente quanto fatto da Intesa, si è comprato il corpaccione buono dell’istituto – fortissimo tra le Pmi rurali – per il prezzo simbolico di un euro. È una strategia chiara, nata dopo la crisi del 2008 a livello di Banche centrali: favorire il più possibile le concentrazioni bancarie, abbassare drasticamente il numero di soggetti sul mercato attraverso processi di cannibalizzazione dei piccoli istituti da parte dei gradi player. In America è andata alla grande, ora tocca a noi. Ma a voi, amici miei, i media hanno raccontato della siccità nelle scorse ore. 

In 19 anni di gestione oligarchica, Giovanni Zonin ha distrutto una banca, trasformando la Popolare di Vicenza nel bancomat di amici e soliti noti. Per questo, ha ricevuto soltanto una multa da 370mila euro della Consob. Ora la banca, regalata a Intesa per un euro e depurata dalle sofferenze, chiede a lui e ad altri 31 dirigenti, 2 miliardi di risarcimenti ma l’azienda vinicola di famiglia, asset su cui rivalersi, non è più di Giovanni Zonin. Ha intestato tutto ai figli e lui risulta nullatenente, oltre che uccel di bosco. Uno Stato civile lo cercherebbe anche in capo al mondo, lo sbatterebbe in galera e butterebbe via la chiave, stante il quadro emerso. Il problema è che, così facendo, costringerebbero Giovanni Zonin a difendersi. E a parlare. Come si è evitato che accadesse per Mps, per Etruria, per Veneto Banca. Signori, non prendiamoci in giro: di sistema bancario in Italia, meno ne si parla, meglio è. 

A vostro avviso, perché Maria Elena Boschi non ha dato seguito alla sua minaccia di querela verso Ferruccio De Bortoli, rispetto allo scoop sulle presunte pressioni esercitate dall’allora ministro sull’ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, rispetto al destino di Banca Etruria? Ma il problema con cui riempire giornali e dibattiti è la siccità, però. Mi pare superfluo citare Noam Chomsky, siamo alla fabbrica della disinformazione e del consenso all’ennesima potenza. Meglio scomodare Goebbels.