“Tagliare le tasse? Prima, sarebbe meglio tagliare le leggi”: caustico come sempre, snob più che mai, Giulio Tremonti, economista, senatore ed ex ministro dell’Economia, non si lascia incastrare nel meccanismo, che pure sarebbe logico, che stritola tutti gli “ex”: commentare il presente da un’angolazione impotente. E quando il pubblico di una conferenza a porte chiuse dei giovani Ucid, l’Unione cristiana imprenditori e dirigenti, lo incalza con le domande che puntano all’attualità, lui trova un modo originale per svicolare: insegna.
“Tendenzialmente, sul fisco, non credo nelle magie: a chi predica la flat-tax come la panacea di tutti i mali replico che oggi i Paesi che l’adottano sono quelli della fascia caucasica, dove però quando capita di essere ricoverati in ospedale bisogna portarsi dietro da casa coperte e medicinali”. In effetti, continua il professore dopo la battuta di spirito (che però non è certo infondata), oggi colpisce che nei piani di Trump ci sia una tale riduzione delle aliquote da somigliare alla flat-tax. Ma, appunto, è una somiglianza e non un’identità. “La Casa Bianca promette di ridurre al 15% il prelievo sulle imprese, ma sulle persone fisiche prefigura di lasciare tre aliquote”, sottolinea Tremonti. Che non entra nel merito della piccola “flat-tax” vigente in Italia a favore di quella sparuta e ipotetica categoria di stranieri, o expat, che vogliano venire da noi espressamente per trascorrere in Italia i loro anni “di rendita” e per questo vengono autorizzati a pagare solo 100 mila euro all’anno al fisco per dieci anni: è chiaro che, direbbe un giurista, è “parva materia”, cioè una questione del tutto trascurabile sul piano delle dinamiche effettive della finanza pubblica, sia dal punto di vista degli scopi (l’attrazione degli investimenti), sia da quello degli strumenti e delle possibili cifre in gioco.
Viceversa, l’ex ministro più amato dalla Lega è chiaramente e resta ormai uno scettico sulle capacita di auto-terapia del nostro sistema-Paese: “Per far aumentare il Pil è è necessario tagliare le tasse o, prima, abbattere il debito?”, gli viene chiesto. “L’ultima Gazzetta ufficiale italiana (prima che fosse europeizzata, ndr)”, ha risposto Tremonti, “se la si fosse misurata linearmente sarebbe risultata lunga 23 chilometri. Il nuovo codice degli appalti da solo è lungo 1,2 chilometri. Voglio dire: ridurre le tasse può avere effetti positivi sull’economia, ma ne avrebbe di ben maggiori ridurre le leggi. Se Guglielmo Marconi avesse tentato di svolgere le sue ricerche scientifiche con le leggi di oggi, sarebbe incorso in quattro o cinque reati, emissioni dannose, lavoro nero e chissà cos’altro”.
Ma lo scenarismo di Tremonti va ben oltre il “dibattituccio” su questa o quella legge italiana. Il professore dipinge un quadro molto fosco sul futuro, anche se poi finisce col trovarvi qualche spiraglio di ottimismo. Davanti a noi individua cinque crisi globali: quella migratoria, che non c’entra col problema immediato degli sbarchi, ma con la tendenza fatale e storica al ribilanciamento della demografia, col prevalere drastico delle popolazioni del Sud del mondo, che emigrino o no, e con la conseguente fatale redistribuzione della ricchezza, gravemente complicata dalla finanziarizzazione del capitalismo, che deve addirittura il suo nome da un inscindibile ancoraggio con l’economia reale – viene da “caput” perché si riferiva al possesso dei capi di bestiame – e oggi è tutt’altra cosa; questa finanziarizzazione, ecco la seconda criticità, fa sì che oggi i fattori di crack dei mercati che ne causarono appunto il collasso dieci anni fa ci sono tutti, e in proporzioni anche maggiori; la terza criticità risiede negli effetti ingestiti, e spaventosi, della rivoluzione digitale che per come sta nascendo minaccia di sovvertire distruttivamente i capisaldi del lavoro umano come l’abbiamo considerato finora, senza proporre alcuno spunto per trovare formule alternative; la quarta criticità è l’esplosione della violenza militare e terroristica, quella “guerra mondiale a pezzetti” di cui tante volte ha parlato papa Francesco. E infine la crisi soprattutto valoriale del modello europeo, col sovvertimento del Trattato di Roma e del suo spirito, con un sostanziale fallimento della scommessa sull’euro, una moneta senza governi per dei governi senza moneta.
E l’ottimismo? Sta, piccolo piccolo, in un angolino: quello di chi spera che proprio da questo disordine globale le forze vitali dell’umanità ne escogitino le nuove frontiere. Ma, come si dice, è l’ottimismo della speranza, più che altro.