In attesa che il governo Gentiloni, coadiuvato dalla Protezione civile, organizzi torpedoni che da tutta Italia portino i cittadini a Milano per baciare la pantofola a Carlo Messina per l’atto di generosità compiuto da Banca Intesa verso le due banche venete “salvate”, è opportuno mettere alcuni paletti. Primo, nel Paese più esterofilo del mondo, il nostro, di colpo è calata una censura senza precedenti sulle notizie maggiormente evidenziate dalla stampa estera: ricordate ai tempi del governo Berlusconi? Bastava un alito di vento e tutti a citare i titoli di Guardian, Economist, Times, Washington Post, Le Figaro e quant’altro. Oggi, invece, zero. E sapete perché? Perché a partire dal Financial Times e fino a El Pais e Die Welt, tutti hanno dedicato un unico titolo all’Italia negli ultimi giorni: il governo decide di far pagare il conto per Veneto Banca e Popolare di Vicenza ai cittadini, invece che ad azionisti e obbligazionisti attraverso il bail-in. Tutti, un coro univoco. E come si difende il governo? Ovviamente, aggrappandosi al gran cerimoniere dell’operazione, Mario Draghi, il quale avrebbe sancito la non sistematicità dei due istituti, dando il via libera alla vecchia soluzione alternativa del salvataggio di Stato attraverso la bad bank. La quale, sia chiaro, grava sulla fiscalità generale, nonostante le balle profuse a piene mani sul fatto che il deficit statale non ne risentirà direttamente.
Cambia poco, davvero poco: al netto del ministro Delrio e della sua difesa del provvedimento – «Bisognava garantire l’accesso al credito di un territorio» -, resta un precedente: il cda di Intesa Sanpaolo conta più del Parlamento. Anzi, lo ha proprio esautorato. Perché il comunicato dell’altro giorno parla chiaro: se il decreto non verrà convertito in legge o, nel processo di conversione, subirà mutamenti, l’accordo salta. Un’entità privata detta le regole allo Stato: pensavo che sarei morto senza dover assistere a un abuso simile. Certo, quanto fatto ha evitato perdite ad azionisti, obbligazionisti junior (quelli con in mano i bond più a rischio) e senior, gente che era stata abbindolata dal management delle due banche con la pratica dei “prestiti baciati”, ovvero per ottenere un finanziamento o un mutuo, si era obbligati a comprare azioni. Le quali, giova ricordarlo, non erano trattate sul mercato, quindi prezzate mark-to-market ma allegramente valutate oltre 62 euro per titolo, quota poi diluita praticamente a zero quando quella geniale intuizione chiamata Fondo Atlante le ha acquistate. La domanda è: bene che loro non ci rimettano, ma perché ci devo rimettere io e altri 60 e rotti milioni di italiani? Per la stabilità del sistema, forse? Di quale sistema stiamo parlando, quello che si è già messo in modalità d’emergenza per le prossime due banche che andranno a zampe all’aria, Carige e Popolare di Bari? Ma il nostro sistema bancario, a detta di Padoan e di Bankitalia, non era sanissimo? E poi, una domanda: perché nessuno è interessato a sapere come mai in determinati territori, vedi Ferrara, alcuni clienti hanno potuto vendere le proprie azioni ancora a una valutazione accettabile, mentre la grandissima parte è stata costretta a tenerle fino alla tagliola della diluizione? Chi sono questi fortunati che hanno potuto sbarazzarsi in tempo di quella vera e propria carta igienica? Nessuna procura è punta da vaghezza al riguardo? E Bankitalia? E la Bce, che ha benedetto l’operazione Stato-Intesa?
Ma attenzione, perché proprio dall’Eurotower – nella persona del suo governatore – ieri è arrivata la conferma che quanto accaduto con le due banche venete è solo il prologo di un tonfo generale che è alle porte. E di cui l’Italia, purtroppo, pagherà il prezzo maggiore, insieme a Portogallo e Spagna. Nel suo discorso introduttivo al forum delle Banche centrali di Sintra, proprio in Portogallo, ieri il numero uno dell’Eurotower ha infatti ribadito che la politica monetaria è efficace e il processo di trasmissione funzionerà: «Da gennaio 2015, ossia da quando è partito il Qe, il Pil dell’eurozona è cresciuto del 3,6% e l’occupazione è aumentata di quattro milioni di unità. Tutti i segnali indicano ora un consolidamento e un ampliamento della ripresa nell’area euro, mentre le forze deflazionistiche sono state sostituite da quelle di reflazione. Anche se ci sono ancora fattori che stanno pesando sul cammino dell’inflazione, sono comunque principalmente temporanei». Si parte con il tapering, quindi? Eh no, «è ancora necessario un considerevole grado di accomodamento monetario, affinché le dinamiche dell’indice dei prezzi al consumo diventino durevoli e autosufficienti. Possiamo essere certi che la nostra politica sta funzionando e che i suoi pieni effetti sull’inflazione gradualmente si materializzeranno ma per questo la nostra politica deve essere persistente e dobbiamo essere prudenti nel modo in cui adeguiamo i suoi parametri al miglioramento delle condizioni economiche».
Insomma, tutto ok lungo il percorso che abbiamo imboccato, ma attenzione perché i mostri dei videogames evocati da Giulio Tremonti sono sempre dietro l’angolo. E come mai, cosa c’è di potenzialmente fuori controllo in una politica accorta come quella della Bce? Forse il fatto che, al netto dei dati occupazionali (figli di politiche una tantum dei governi e del finanziamento diretto alle aziende europee tramite emissioni poi inglobate dalla stessa Eurotower), stiamo galleggiando in un mare di bolle che Mario Draghi finge di non vedere. Vediamo di partire dai dati: finora la Bce ha comprato il 17% del debito tedesco, il 14% di quelli francese, il 12% di quello italiano e il 16% di quello spagnolo. Insomma, la Banca centrale è stata il compratore netto maggiore di debito sovrano europeo, sia nel 2015 che nel 2016. Ora, domanda da 1 milione di dollari: chi diavolo comprerà debito periferico europeo ai prezzi artificialmente fissati dagli acquisti della Bce, quando questa smetterà di operare o rallenterà i volumi? Parliamo di tassi sui bond che non riflettono nemmeno un return reale sui minimi, essendo al di sotto dell’inflazione: che rischi si corrono?
Primo, i bond ad alto rendimento nell’eurozona stanno tradando a yields storicamente bassissimi, nonostante il fatto che la generazione di liquidità e la capacità di ripagare il debito non abbiano migliorato significativamente. Inoltre, i titoli azionari europei con maggiore capitalizzazione (Eurostoxx 50) stanno scambiando a un multiplo di utile per azione di 20x e a una ratio EV/Ebitda di 8.3x, questo nonostante otto anni di utili piatti e continui downgrades, soltanto ultimamente ritoccati al rialzo dalle agenzie di rating (chissà come mai, necessità di rialzi auto-avveranti?). I multipli legati ad accordi infrastrutturali sono cresciuti di 5 volte in soli tre anni, arrivando oggi a una media allucinante di 16-19x di Ebitda. L’eccesso di liquidità nell’eurozona ha già raggiunto quota 1,2 triliardi di euro, sette volte tanto da quando è stato lanciato il Qe.
E tutto questo per cosa? Tutto per stimolare l’inflazione. Ma cosa può impattare? Ad esempio, la disinflazione positiva generata dagli avanzamenti tecnologici o anche i logici cambiamenti nei consumi personali, dati dal cronico invecchiamento della popolazione europea. Ma anche altro: ovvero, il fatto che l’Ue non abbia mai avuto un problema di mancanza di investimenti, bensì di eccesso di spesa legato a piani infrastrutturali e industriali lasciati andare alla deriva che hanno ampliato, non solo il problema debitorio, ma anche quello di sovra-capacità. «La politica monetaria è come la Coca-Cola, ha un effetto stimolante, ma ha troppo zucchero e non ha reali qualità benefiche», ricorda sempre il numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann.
Insomma, la Bce – così come i vari governi, soprattutto dei Paesi periferici – pensa che la prosperità economica sia generata dal debito e non dalla razionalità di spesa: quindi, proseguire con il Qe, come ha dichiarato di voler fare Draghi, significa soltanto fare gonfiare ulteriormente quella bolla, fino a quando sarà troppo tardi per cercare di farla sgonfiare in maniera controllata. Durante una delle ultime conferenze stampa, Mario Draghi ha ammesso che «nessuno sa quando e da dove arriverà la prossima crisi, l’unica cosa sicura è che arriverà». Strano, perché sta costruendosela in casa, mentre il detonatore lo metterà la Fed, mandando fuori contro le politiche valutarie dei Paesi emergenti. Se non subito, certamente dopo il meeting di Jackson Hole di fine agosto. La crisi nascerà, infatti, dalla generazione artificiale di moneta a un livello ben superiore a quello della vera crescita economica: come uscirne senza un terremoto? Facile, invertendo la marcia: tagliare i tassi e stampare di più.
Di fatto, la Bce sa esattamente quanto sa la Fed: un evento bellico a livello globale è dietro l’angolo, la minaccia della Casa Bianca verso Assad sulle armi chimiche è un segnale chiaro, quindi c’è spazio per nuovo stimolo monetario, di fatto scordandosi per un po’ anche della criticità rappresentata dal prezzo del petrolio. Quindi, via libera a Banco Popular-Santander e Intesa-banche venete: il piano è chiaro, usare la nuova crisi per farla finita con l’eccesso di partecipazione al sistema bancario, massimo tre gruppi per Paese. E la cosa paradossale è che un’operazione del genere passa attraverso una svendita e la scusa di garantire credito a un intero territorio.
Qualcosa può andare storto? Certo. E, in effetti, sono troppi giorni che non giungono notizie relative alla politica monetaria in Cina. Brutto segno.