Le parole dei banchieri centrali martedì hanno mosso i mercati in modo evidente. Prima è stato il turno di Draghi che con queste parole “la minaccia della deflazione è finita e sono presenti forze inflattive” ha dato l’impressione al mercato che la banca centrale fosse più incline a ridurre le politiche espansive accontentando le richieste tedesche. Il risultato è stato un apprezzamento dell’euro sul dollaro, oltre l’1.13 per la prima volta dall’estate 2016, e un rialzo deciso del costo del debito dei Paesi europei; il decennale italiano, per esempio, martedì sera rendeva il 2,06% contro l’1,9% della mattina. Nel pomeriggio era il turno del presidente della Fed di Filadelfia Harker: “C’è un dibattito sul fatto che stiamo misurando l’inflazione correttamente, è possibile che stiamo entrando in un mondo di bassa inflazione”, ma ribadiva il suo supporto a una “graduale rimozione delle politiche accomodanti”.



Il graduale abbandono delle politiche espansive messe in atto dopo la crisi del 2008 è uno dei temi più importanti, se non il tema, per i mercati. La domanda per tutti è come reagiranno i mercati finanziari a questa “novità”, perché è opinione diffusa che negli ultimi anni si siano create bolle speculative sui mercati. Non si possono mai prevedere tutti gli effetti dello scoppio di una bolla, ma in questo caso bisogna chiedersi se i mercati e il sistema finanziario abbiano recuperato abbastanza bene per reggerne l’urto; bisogna anche chiedersi se “l’economia reale” abbia recuperato abbastanza per reggere l’urto di un rialzo dei tassi sempre ammesso che i banchieri centrali non decidano di fermarsi presto alle prime avvisaglie di crisi. I dubbi di Harker sull’inflazione probabilmente nascondono delle perplessità sulla forza della crescita americana.



Se la domanda per tutti è quella sugli effetti finanziari di una riduzione delle politiche espansive, le domande per i singoli continenti e per le singole nazioni sono diverse. Nel caso europeo bisogna sottolineare almeno due aspetti. Il primo è che le politiche monetarie espansive sono state uno dei pochissimi elementi che hanno ridotto gli squilibri interni tra Paesi economicamente forti e Paesi deboli; se tassi bassi per un periodo di tempo così lungo sono stati “meglio” per l’Italia, per la Germania invece sono stati peggio. Un cambio di marcia, a prescindere che sia opportuno o meno, non può non aumentare gli squilibri interni. Le banche italiane sono ultimamente dipendenti dall’economia italiana che subisce gli effetti del comportamento dello Stato italiano, mentre quelle tedesche dall’economia tedesca. La questione capitale di un’unione con stessa valuta, stessa banca centrale, stessi dazi ma sistemi fiscali e di tassi di interessi diversi rischia di peggiorare ulteriormente: martedì lo “spread” infatti è aumentato di sette punti. Senza un meccanismo di riequilibrio interno il rischio è quello di avere parti sempre più grandi d’Europa simili alla Grecia. Nominalmente europee, ma in pratica irriconoscibili rispetto a Germania, Olanda o Francia.



La seconda domanda per l’Europa è il destino delle sue esportazioni. Se la reazione di martedì, un apprezzamento dell’euro, è l’antipasto di quello che verrà, l’Europa rischia di perdere una delle pochissime valvole di sfogo delle sue difficoltà e cioè le esportazioni, Questa valvola di sfogo è stata tanto più importante per gli Stati che hanno perso in misura maggiore la domanda interna a causa dell’austerity. Gli squilibri europei sono stati mitigati da una svalutazione dell’euro che è stata una manna per le esportazioni, ma l’Europa non può vivere e sopravvivere alle sue inefficienze e ai suoi squilibri grazie a un modello, il debito pubblico, che però rifiuta per se stessa. Se questo andamento si interrompe, com’è emerso martedì, l’Europa ha tutti i problemi degli altri più quello di una crescita autonoma e non solamente dipendente dalle esportazioni. Poi c’è quello degli squilibri interni.