Non molti sono riusciti a percepire, a causa di una stampa e una informazione schiacciate sui fatti quotidiani, che una grande riforma della società civile sta per entrare in vigore in Italia. Si tratta dell’attuazione governativa della delega legislativa conferita dal parlamento con la L. 6-6-2016 n.106 “per la riforma del Terzo Settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale” delega che scade il 3 luglio prossimo. Il Terzo settore nella riforma è il settore cd. non profit cioè di tutti quegli enti che, costituiti per scopi ideali non distribuiscono utili. È la vera società civile, quella che riunisce le forze morali, spirituali, ideali appunto; è indubbio che alla società civile appartengano anche gli enti profit che distribuiscono utili, cioè gli enti disciplinati dal Titolo V del Libro Quinto del Codice civile, ma qui lo scopo economico è prevalente e giustamente la disciplina del Codice appare più dettagliata e preoccupata delle deviazioni e delle alterazioni cui gli interessi economici possono dare luogo. Molto più stringata è invece la disciplina del Titolo II del Libro Primo del Codice civile che si riferisce appunto agli enti con scopi ideali e non profit



La ragione tuttavia della differente disciplina non è solo economica, ma è strettamente collegata all’inerenza di quegli enti all’esercizio della libertà dei cittadini. Quegli enti sono espressione palese e diretta della libertà e la nostra Costituzione è ricca di riconoscimenti e di tutele della libertà degli enti della società civile: si ricordino gli artt. 2,18,19,20, 21, 33, 39, 45,49 e 118. Dagli anni Settanta del secolo scorso in Italia vi è stato uno sviluppo impetuoso del settore non profit ispirato fortemente dal modello statunitense delle non profit organisations e la stessa precisa identificazione di un collegato settore dell’economia (appunto il Terzo settore economico) trova origine nel modello economico-organizzativo statunitense  (Zamagni). Le ragioni di un tale sviluppo vanno  ricercate nel clima di libertà inaugurato dalla Costituzione per la società civile e, in secondo luogo, nella identificazione pubblica del non profit come settore sussidiario in grado di sostituire funzioni prima svolte pubblicamente. Sono nati così enti diversi cui sono state applicate discipline diversificate, sia in funzione del tipo di enti che delle agevolazioni applicabili in relazione alle attività svolte, più o meno connesse con l’interesse pubblico.



Secondo l’espressione del prof. Giulio Ponzanelli, uno dei principali studiosi italiani del modello non profit e dei maggiori consiglieri del Governo nella redazione degli schemi di decreti delegati, nel campo degli enti non profit  si era formato così un groviglio di leggi speciali (espressione che Ponzanelli cita mutuando da Maria Vita De Giorgi). Questo groviglio ha motivato il governo a una semplificazione, ma l’intento non è stato certamente solo quello di semplificare, ma, più ampiamente, di riformare e di riformare in profondità. Lo Schema di Decreto-delegato sul Terzo settore crea un grande contenitore in cui intende comprendere tutte le realtà che operano per “finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” (art. 4 c.1), secondo forme svariate ma tutte caratterizzate dal vincolo della “non-distribuzione degli utili” (non distribution constraint) (tranne che per l’impresa sociale che ha una disciplina particolare per la quale è ammessa una limitata distribuzione di utili). A queste realtà, a condizione che siano iscritte nel nuovo “Registro unico nazionale del Terzo settore”, sono riconosciuti alcuni vantaggi normativi in termini fiscali o di incentivi. Si crea in  sostanza un grande insieme, una grande categoria che assomiglia a quella  statunitense delle “non profit public benefit organisations“. 



Lo Schema di Decreto-delegato non modifica (tranne che per l’aggiunta di un art. 42 bis in materia di trasformazione, fusione e scissione degli enti del Titolo II del Libro Primo) il codice civile, discostandosi in questo nettamente dalla Legge-delega che aveva previsto una “revisione della disciplina del titolo II del libro primo del codice civile”. Se ne deduce che le norme civilistiche dovrebbero continuare a essere vigenti e a regolare gli enti diversi da quelli del Terzo settore. 

Questa scelta del governo, di lasciare invariate le norme civilistiche per gli enti diversi da quelli del Terzo settore, a parte il problema di vedere se non integri una difformità rispetto alla delega, potrebbe anche essere condivisibile se fosse rilasciata agli enti la libertà di assoggettarsi o meno alla nuova disciplina per godere dei benefici e delle agevolazioni previste. Sarebbero a questo punto gli enti con un rilievo economico importante a richiedere di rientrare nella nuova disciplina (e ciò in quanto enti appunto del Terzo settore economico), mentre tutti gli altri dovrebbero poter continuare a essere soltanto soggetti alle norme del codice civile. Ma non è così. 

L’elenco infatti delle “attività di interesse generale” che formano oggetto degli enti del Terzo settore (art. 5 dello Schema) è di tale ampiezza che si fa molta fatica a immaginare cosa ne sia escluso: a titolo esemplificativo vi sono inclusi, oltre a tutti i servizi alla persona, “l’organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale”, la “formazione universitaria e post-universitaria” la “tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio” la “salvaguardia e il miglioramento delle condizioni dell’ambiente”, la “ricerca scientifica di particolare interesse sociale”, la “promozione della pace tra i popoli”m la “promozione e tutela dei diritti umani e dei diritti civili”, ecc. 

Ora l’art. 4 afferma in modo perentorio che gli enti che gestiscono tali attività per gli scopi sopra indicati e senza distribuzioni di utili “sono enti del Terzo settore” e non aggiunge: se si iscrivono al Registro unico nazionale. Si tratta quindi di una definizione legislativa senza possibilità di esclusione volontaria da parte del soggetto interessato, di una definizione quindi che innova la descrizione giuridica del fenomeno e lascia residualmente l’ambito competenziale del codice civile agli enti – ben pochi – che si possono considerare fuori dal Terzo settore. Neppure si dice che l’iscrizione di codesti enti al Registro unico nazionale è facoltativa. L’art. 47 reca in modo assertivo che “…la domanda di iscrizione nel Registro unico nazionale del Terzo settore è presentata dal rappresentante legale…”. Nello stesso senso dispone l’art. 54 che prevede la trasmigrazione automatica dell’iscrizione dai Registri esistenti al nuovo Registro unico nazionale, senza prevedere alcuna possibilità di volontà contraria da parte dei soggetti. E sempre nello stesso senso si prevede che anche il notaio che riceve un atto costitutivo deve iscriverlo nel Registro, al di là di ogni manifestazione di volontà contraria. Con l’iscrizione al Registro, associazioni e fondazioni diverranno “riconosciute” e acquisteranno automaticamente la personalità giuridica e la responsabilità limitata al patrimonio. In questo modo tutte le associazioni e fondazioni saranno di default “riconosciute” e abbandoneranno la forma degli enti “non riconosciuti” oggi prevalente; sinora, infatti, delle associazioni che si presentano a un notaio per l’atto costitutivo si può dire che una soltanto su dieci fa la richiesta del “riconoscimento giuridico”.

Ecco che, a questo punto, ci possiamo render conto del sovraccarico di forme e adempimenti che sono imposti agli enti già regolati dal Titolo II del Libro Primo del Codice. Infatti, se sono enti del Terzo settore – quindi quasi tutti – dovranno dunque, come è emerso: essere costituiti con atto notarile, avere un patrimonio minimo (non inferiore a euro 15.000,00 per le associazioni e a euro 30.000,00 per le fondazioni),  redigere un bilancio con precise regole, tenere un numero notevole di libri sociali, avere un organo di controllo (questo oltre certi limiti minimi di indicatori economici), assoggettarsi a una serie di regole inderogabili riguardanti assemblee e organo amministrativo, fra le quali spicca il divieto di avere un amministratore o una maggioranza di amministratori di nomina esterna alla compagine dei soci e l’obbligo di ricostituire il patrimonio ai livelli minimi qualora sia stato perduto per oltre un terzo. 

Si pensi a questo punto alla miriade di piccole associazioni costituite per motivi ideali, filantropici o di servizio quasi tutte non riconosciute e quasi tutte che, non avendo contenuti patrimoniali rilevanti, svolgono le loro attività con le quote degli associati e non hanno neppure bisogno di agevolazioni fiscali. Si pensi alle tantissime associazioni esistenti neppure costituite con atto notarile. Ora tutte queste realtà, che sono l’aspetto vivo della società civile, che vivono della passione ideale e dell’impegno dei soci dovranno adempiere a tutti questi requisiti, dotarsi di un commercialista, di un fiscalista, di un consulente del lavoro, forse di un legale perché alle stesse si applicheranno anche molte norme societarie del Titolo V del Libro Quinto delle società, dovranno poi sottostare ai controlli dell’Ufficio del Registro unico nazionale  del Terzo settore, dell’Amministrazione finanziaria e dei Centri servizio per il volontariato, nuova struttura di controllo del lavoro e dell’impegno volontario diffusa capillarmente su tutto il territorio.

Si deve anche osservare che per le figure di enti particolari già disciplinati dalla legislazione vigente rimangono in vigore o sono riprese nel “Codice del Terzo settore” tutte le norme già esistenti che delineavano statuti particolari. Così è per gli enti del volontariato, per le associazioni di promozione sociale, per le cooperative sociali, per le società di mutuo soccorso, per le organizzazioni non governative, ecc. Sono anche, ovviamente, riprese e, di massima, confermate le agevolazioni fiscali e gli incentivi già disposti in precedenza, ma certo non si può dire in generale che la riforma aumenti la normativa di favore per gli enti del Terzo settore e neppure lo avrebbe potuto fare in presenza dell’art.1 c.6 della Legge-delega che dispone: “Dall’attuazione delle deleghe recate dalla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Semmai si possono riscontrare diminuzioni di trattamenti agevolativi e di favore, questi certamente non vietati dalla Legge-delega.

Infine, bisogna tener conto che in molti casi le Regioni, per gli enti operanti in materie di competenza regionale, hanno disposto particolari incentivazioni spesso legate all’assolvimento di particolari requisiti. Come si coordineranno tali requisiti con i nuovi disposti dal Codice del Terzo settore? Non possiamo qui inoltrarci in queste questioni che sono già apparse scottanti e foriere di un contenzioso costituzionale Stato-regioni che potrebbe ostacolare grandemente il cammino della riforma.

Cosa dunque, di fronte allo Schema presentato al Governo, chiedere innanzitutto? La prima richiesta è che si disponga chiaramente la facoltatività dell’adozione delle forme e dei requisiti degli enti del Terzo settore e quindi la facoltatività dell’iscrizione al Registro unico nazionale. Chi non vuole o non ha interesse a fruire delle agevolazioni deve potere mantenere la più semplice disciplina civilistica. È una suprema questione di libertà ampiamente tutelata dalle norme costituzionali. Si dovranno poi affrontare i problemi del riparto delle competenze con le Regioni, alle quali non può essere impedito di proseguire o di iniziare politiche di incentivazione nelle loro materie. Qualora queste esigenze non fossero ascoltate in sede di approvazione dei Decreti-delegati, si potrà ancora utilizzare la facoltà di cui all’art.1 c.6 della Legge-delega, che permette al Governo di adottare entro un anno ulteriori disposizioni integrative e correttive dei decreti medesimi.