Il mondo politico italiano è alle prese con la nuova legge elettorale che forse verrà approvata nei tempi per permettere elezioni anticipate e dare al Segretario del Pd, per alcune settimane, l’illusione di vincerle e di rientrare trionfante a palazzo Chigi. Invece, a via Venti Settembre (in particolare al ministero dell’Economia e delle Finanze) si tratta, più proficuamente, con la Commissione europea la possibilità di riscadenzare la manovra di aggiustamento per rimettere in sesto i conti pubblici, secondo le regole del Fiscal compact. Come presentata da gran parte della stampa, la proposta implicherebbe di spalmare su almeno due anni l’aggiustamento previsto, in base al Fiscal compact, in circa 20 miliardi di euro per l’esercizio finanziario 2018, portandolo, l’anno prossimo, a 9 miliardi di euro e sospendere le clausole di salvaguardia che avrebbe comportato un aumento dell’Iva.



Occorre dire che le notizie giornalistiche apparse questo fine settimane sono piuttosto confuse sia perché la trattativa è in corso, sia perché numerosi giornalisti che trattano di temi e problemi europei conoscono a menadito il diritto europeo e le procedure che da esso scaturiscono, ma sembrano aver dimenticato alcuni punti essenziali del diritto internazionale. Da un lato, è sacrosanto sottolineare che il buon esito della trattativa con la Commissione è unicamente un primo passo. Molto più difficile sarà convincere i ministri degli altri Stati dell’Ue.



La proposta italiana dovrebbe cominciare a essere discussa a metà giugno. I fronti sono già delineati: gli Stati mediterranei e la Francia sembrano favorevoli, mentre la Germania, gli Stati nordici e quelli dell’Europa centrale e orientale non vorrebbero sentirne parlare. Molto dipende dal quadro politico che si profilerà per l’Italia; se dopo le elezioni, ci sarà un esecutivo stabile e affidabile, le proposte italiane potranno venire accolte; se, invece, anche in base a una legge elettorale affrettata e similtedesca ma in salsa fiorentina, si profila un’instabilità caratterizzata da Governi di coalizione litigiosi e di breve durata, sarà duro convincere i Governi degli Stati Ue che non si fidano delle promesse di Governi comunque prevedibilmente a breve termine e dilaniati al loro interno.



Questo problema squisitamente politico si situa in un complesso quadro giuridico: la natura del Fiscal compact. Non è un trattato (valido spesso per sempre o almeno sino a quando una o più parti lo denunciano), ma un accordo intergovernativo, e, come tutti gli accordi intergovernativi, a termine. Il Fiscal compact (tecnicamente si chiama «Accordo sulla stabilità, il coordinamento e la governance dell’Unione economica e monetaria») nasce per l’esigenza di accelerare i tempi del raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica e di rapporto tra debito e Pil del Trattato di Maastricht: pareggio di bilancio, tetto del 60% nel rapporto debito/Pil e del 3% in quello deficit/Pil. Si tratta di un accordo intergovernativo, che dovrà essere incorporato nei trattati europei “entro cinque anni” dalla sua entrata in vigore, avvenuta il 1° gennaio 2013. Dunque entro il 1° gennaio del 2018. Sulla base dell’esperienza fattane, potrà essere riveduto e corretto o anche fatto più o meno dolcemente decadere

È per questo che il tema tiene banco nell’agenda europea in tutto il 2017. Un periodo in cui sono anche fissate importanti scadenze elettorali: in Olanda, Francia e forse Italia (dove la coalizione in carica ha subito appena sei mesi fa una fortissima sconfitta al referendum sulla riforma costituzionale).

L’intreccio tra aspetti squisitamente politici e aspetti decisamente giuridici complica non poco una discussione serena, a livello europeo, della proposta Padoan. Tuttavia, a metà giugno si potranno percepire alcune indicazioni da valutare con attenzione