La decisione con cui uno dei principali investitori globali, Pimco, ha deciso di passare a “neutral” sui titoli di stato italiani è stato uno degli argomenti del giorno ieri. Il responsabile degli investimenti obbligazionari di Pimco, Andrew Balls, ha detto che “prendere il 2% all’anno su un decennale dall’Italia non è abbastanza attraente”; il gestore ci tiene a precisare che il suo “scenario base” non sia un’uscita dall’euro dell’Italia, ma che la percezione del suo rischio possa peggiorare. Ciò che “suscita orrore” per Andrew Balls è uno scenario in cui la Banca centrale europea finisce il Quantitative easing e l’Italia deve rivolgersi all’Europa (European stability mechanism). Un economista di Jp Morgan ha aggiunto che prima è il voto anticipato, più forte sarà l’effetto sulle obbligazioni italiane.
Per capire cosa stia succedendo bisogna fare due passi indietro. È vero che prestare al governo italiano al 2% non sembra un affare particolare, ma è altrettanto vero che anche prestare alla Germania allo 0,2% non è un affare. Questo è il motivo per cui le borse mondiali continuano a salire, più per esclusione che per convinzione. La questione che tocca l’Italia è che se il conto per gli interessi sul debito dovesse salire, perché la Bce chiude il Qe, far quadrare i conti diventerebbe più difficile; nel medio termine non c’è nessun modo per cui il debito pubblico italiano possa ridursi in maniera significativa nemmeno assumendo una lunghissima serie positiva di buone riforme per cui il mercato, tra l’altro, non ha tempo di aspettare.
Il motivo per cui l’Italia finisce nel mirino è l’assenza di crescita; a nessuno importerebbe nulla del debito italiano in questa fase se l’Italia avesse la metà della disoccupazione e un Pil al 3%. La prova di questa affermazione è che a nessuno interessa niente dell’esplosione del debito pubblico americano dal 2008 a oggi o di quello giapponese o di quello francese. Lo stato di salute finanziaria della famiglia italiana media rispetto a quella americana, ancora oggi e nonostante dieci anni di crisi, non rende particolarmente differente la sostenibilità del debito a patto che l’Italia cresca. La traiettoria del debito pubblico americano è insostenibile esattamente come quello italiano in assenza di crescita, allo stesso modo non c’è interesse a prestare alla Germania allo 0,2%.
Assumere che l’Italia rimanga nell’euro, ma possa avere uno shock sul suo debito, non significa altro che evidenziare tutta la contraddizione dell’attuale costruzione europea. L’Italia non può competere avendo le stesse leggi, gli stessi dazi e soprattutto la stessa valuta e avendo un conto sugli interessi che è un multiplo degli altri stati europei; è evidente e non serve essere economisti. In un mondo normale l’Italia “pagherebbe” i suoi sprechi con una svalutazione della sua moneta; ma oggi questa valvola di sfogo non esiste; così come non esiste che l’Italia possa mettere in piedi una politica industriale potendo liberamente destinare risorse o abbassare e alzare i dazi assecondando la forza o la debolezza della sua industria.
La ricetta ai problemi attuali economici dell’Italia non sono le privatizzazioni, ma più crescita. Non è pensabile alzare le tasse in questo frangente o tagliare sussidi di qualsiasi ordine e grado se non c’è contemporaneamente la crescita, altrimenti si esasperano contraddizioni che esplodono in “populismi” e in una protesta politica che rende impossibile qualsiasi buona riforma. Il circolo vizioso dovrebbe essere ormai evidente. In un’ottica europea l’unica soluzione per l’Italia, che ha ceduto la sua sovranità, è che i contribuenti tedeschi od olandesi finanzino le metropolitane in Sicilia esattamente come i contribuenti di New York finanziano quelli dell’Alabama. Se non c’è nessun meccanismo di redistribuzione interna e nessuna valvola di sfogo per l’Italia non c’è, oggettivamente, nessuna conclusione possibile al di fuori di un collasso industriale ed economico a partire, come già sta accadendo, dalle regioni del sud. I mercati non “compreranno” mai le riforme, ma solo la crescita che si tocca perché oggi le incertezze globali sono enormi.
Le elezioni anticipate italiane in questa ottica sono un finto problema; sarebbero significative solo se, in qualche modo, spostassero l’attuale equilibrio europeo e la collocazione italiana. Oggi invece servono a riproporre le stesse forze politiche degli ultimi cinque anni aggiungendo però il brivido dell’ignoto che, per i mercati, è sempre peggio del noto che c’è oggi. Qualsiasi brivido di incertezza e qualsiasi salita agli onori della cronaca ripropone ai distratti investitori la contraddizione strutturale italiana.
L’euro nel breve termine sopravviverà perché la Germania non vuole pagare il conto e infatti Pimco per ora non dubita dell’euro; se la Germania volesse l’Europa si prenderebbe la sua moneta svalutata, l’euro e non il marco, ma dovrebbe anche redistribuire il suo surplus com’è accaduto in Italia per cinquanta anni. L’Italia nel frattempo accetta le finanziarie repressive, la perdita di sovranità, le scorribande sulla sua industria e la cessione del suo risparmio. L’Italia si tiene gli oneri dell’euro, ma non gli onori di essere sicura per sempre di un costo sul debito che è la media di quello che si meriterebbe lei e quello che si meriterebbe la Germania; le crisi sul debito italiano vengono accese e spente da Francoforte in modo arbitrario e scorretto. Invece la Germania si tiene tutti i benefici dell’euro senza i suoi oneri. Il ritorno al marco sarebbe uno shock devastante per l’industria tedesca a meno che tutti i suoi concorrenti immediati, a partire dal principale e cioè l’Italia, non vengano annichiliti.
Al fondo dell’ennesimo dibattito sul debito italiano alla prima occasione buona, le elezioni anticipate, c’è solo e sempre la questione dell’euro e dell’Europa. Tutto il resto non conta. L’euro si romperà solo e solamente quando non converrà più alla Germania.