Che il bersaglio dei sommovimenti geopolitici innescati dal Deep State dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca fosse l’Iran, ve lo dico da tempo. Come con largo anticipo vi ho detto che il confronto tra Usa e Corea del Nord era niente più che una solenne pagliacciata, di fatto un gioco di fumo e specchi, per dirla all’americana, al fine di consentire a Washington e Pechino di accordarsi su ciò che davvero conta, ovvero commercio e valuta. Guarda caso, ieri la Cina è saltata fuori a freddo, dicendo che è pronta a ricominciare con l’acquisto di titoli di Stato Usa, facendo schiantare i rendimenti. Ormai, bollite come sono dal debito e dalle bolle, le due potenze sono obbligate a reggersi l’un l’altra, come ubriachi che si attaccano ai lampioni per arrivare a casa.
Ora, però, la questione si fa seria. Perché l’apertura del vaso di Pandora operata da Donald Trump nel suo viaggio in Arabia Saudita e Israele sta accelerando in maniera tale da rendere un’uscita di pista più che probabile. Prima la rottura delle relazioni diplomatiche tra Paesi del Golfo, Egitto e Libia nei confronti del Qatar e ora l’attacco terroristico a Teheran, oltretutto portato verso obiettivi sensibili e super-protetti, parlano la lingua di un’operazione su vasta scala in atto, qualcosa che non si limita al mero approccio terroristico di destabilizzazione. Qui sembra sempre di più che qualcuno stia cercando un vero e proprio casus belli su scala globale. Il tutto, con l’Europa in piena psicosi da terrorismo e con tre Paesi di fondamentale importanza che, tra oggi e domenica, sono attesi da appuntamenti elettorali.
E attenzione, perché in Iran non si registravano attentati dall’inizio degli anni Ottanta, quando la frattura fra khomeinisti e comunisti, vide i mukaheddin entrare in campo a sancire la fine di un equilibrio interno. Oggi, questo equilibrio è quello sempre più fragile tra sunniti e sciiti in Medio Oriente, con Iran e Arabia Saudita come capofila: fino a ieri la guerra si combatteva attraverso i proxy siriano e yemenita, oggi pare che il confronto sia diretto. Dio ce ne scampi. E per capire qualcosa di più di queste dinamiche, occorre capire qualcosa di più dell’affaire Qatar: ovvero, il fatto che la disputa non dipende affatto dal finanziamento presunto di Doha a gruppi estremisti, soprattutto Hamas e Fratelli Musulmani, visto che Ryad è la capofila del settore nell’area, bensì dallo status del Qatar di monopolista assoluto nel mercato regionale del gas naturale, il quale ha un mercato enorme verso Giappone ed Europa. Se infatti la pipeline petrolifera Qatar-Turchia è la ragione principale per cui in Siria ci si massacra da cinque anni, visti gli interessi contrapposti di Doha e Mosca, questa mappa ci mostra come dietro la scelta di Ryad di isolare il Qatar con la crisi diplomatica altro non ci sia, infatti, che la questione del gas naturale.
La questione non è di oggi e risale infatti al 1995, quando la piccola penisola desertica stava per dar vita alla sua prima spedizione di gas naturale con partenza del North Field, la più grande riserva offshore del mondo, la quale fornisce virtualmente tutto il gas qatariota. Qual era il problema? Semplice, quella piattaforma il Qatar la condivideva con l’Iran, nemico giurato dell’Arabia Saudita. Quel business, però, garantì al Qatar non solo di diventare una delle nazioni più ricche al mondo, avendo un reddito pro-capite di 130mila dollari l’anno, ma anche il più grande esportatore di gas naturale liquefatto (Lng) al mondo. Questo grafico di Bloomberg mette la questione in prospettiva: il gas sta alle casse statali di Doha come il petrolio a quelle di Ryad, di fatto è il driver primario e assoluto dell’economia. In parole povere, negli ultimi venti anni il Qatar si è tramutato in un player globale del settore che ha un unico competitor che può reggere la sua concorrenza, la russa Gazprom. Per gli altri, non c’è gara.
E proprio l’incrocio Qatar-Russia spiega molte cose dell’attuale status. A partire dal 2013, infatti, Doha è stata uno dei maggiori finanziatori dei ribelli anti-Assad: soltanto nel biennio 2013-2015 ha garantito fondi per 3 miliardi di dollari, superando ogni altro governo. L’intento era chiaro: piegare Assad, farlo cadere e riuscire finalmente a far passare il progetto della pipeline petrolifera Qatar-Turchia, di cui la Siria è snodo principale, come ci mostra la mappa.
Il problema è che, con il passare del tempo, due variabili sono entrate in gioco. Primo, l’Arabia Saudita – fiutata l’aria di possibile guadagno geopolitico – ha cominciato a finanziare massicciamente i ribelli siriani, superando in fretta il contributo di Doha e, secondo, quella che doveva essere una guerra civile si è tramutata in un conflitto proxy che vede in campo le maggiori superpotenze, Russia e Usa in testa. Visto il crescente rischio di malaparata, il Qatar ha cominciato ad abbozzare e a mettere in preventivo che Mosca, nel frattempo dislocatasi militarmente in Siria, non avrebbe mai accettato la caduta di Assad e la nascita della pipeline: detto fatto, lo scorso anno il fondo sovrano di Doha ha investito 2,7 miliardi di dollari nell’azienda petrolifera di Stato russa, Rosneft. Questo nonostante il Qatar sia sede della più grande base aerea statunitense nell’area, il quartier generale Centcom con oltre 10mila uomini impiegati nella struttura che sorge a pochi chilometri da Doha.
Immediatamente, a Washington come a Ryad, si è accesa una lampadina rossa di allarme: nei fatti, il Qatar stava diventando uno sponsor dell’asse Russia-Iran-Siria. Intervistato da Bloomberg, Jim Krane, ricercatore nel ramo energia alla Rice University del Baker Institute, non ha usato giri di parole: era la crescente indipendenza politica e finanziaria del Qatar a spaventare gli altri Stati del Golfo. «Il Qatar è sempre stato visto come uno Stato vassallo dell’Arabia Saudita, ma, col tempo, ha usato l’autonomia garantitagli dal suo ruolo egemone nel campo del gas per costruirsi un status di nazione indipendente. Il resto della regione, a quel, punto ha cominciato a cercare ogni opportunità che si presentasse per tarpare le ali a Doha», ha dichiarato Krane. E qual è stata l’occasione che Ryad ha colto immediatamente? Il viaggio di Trump. Come sottolinea Bloomberg, infatti, «la recente visita del presidente Usa, durante la quale ha invitato tutte le nazioni coscienziose a isolare l’Iran, ha rappresentato l’opportunità perfetta per l’Arabia a tal fine. Quando il Qatar ha protestato ufficialmente per questa agenda smaccatamente anti-Teheran, pur cercando di negare subito dopo e chiamando in causa gli hacker per la pubblicazione delle dichiarazioni, Ryad ha immediatamente colto la palla al balzo per metterlo nel mirino». E, infatti, nemmeno due settimane dopo la visita di Trump, la quale sancì tra l’altro la nascita della cosiddetta “Nato araba” per combattere contro l’Isis, ecco la fulminea crisi diplomatica tra Paesi del Golfo e Qatar, con l’Egitto di Al-Sisi schierati con Ryad in chiave anti-Fratelli Musulmani.
E ora, cosa succede? L’Arabia martedì sera aveva emanato un ultimatum verso Doha, scaduto ieri sera alle 9 ora italiana: 10 condizioni da onorare, prima delle quali tagliare tutti i collegamenti con Hamas e i Fratelli Musulmani. Stamattina, quando starete leggendo questo articolo, forse sarà partita una ritorsione o, forse, si starà ancora trattando, vista la mediazione messa in campo dal Kuwait. Ma resta un nodo, anzi due. Primo, i Paesi del Golfo possono alzare la voce, ma dipendono totalmente dal gas naturale del Qatar, in primis gli Emirati Arabi Uniti ma anche lo stesso Egitto. E si comincia già, sul mercato futures, a prezzare ogni tipo di sviluppo, soprattutto quello di possibili interruzioni o danneggiamenti alla strategica pipeline denominata Dolphin, come ci mostra la mappa, un gigante da 1,8 milioni di piedi cubi al giorno: in caso di blocco anche solo parziale di quell’arteria, la regione potrebbe vivere giorni di serio caos, soprattutto perché gli Emirati Arabi dovrebbero trovare immediatamente un fonte alternativa di approvvigionamento per i suoi picchi di domanda interna. Se Ryad forzasse la mano, Doha potrebbe quindi rispondere chiudendo i rubinetti e mettendo con le spalle al muro gli alleati dei sauditi in seno al Consiglio di Cooperazione del Golfo e alla “Nato araba”.
Secondo nodo, il fatto che da una crisi del genere il principale e pressoché unico beneficiario sarebbe la Grazprom, ovvero Mosca, la quale diverrebbe di colpo leader mondiale, senza colpo ferire e senza dire una sola parola riguardo al conflitto nel Golfo. Gli Usa lo permetteranno? Insomma, siamo nel caos geopolitico totale. I fronti si ampliano e adesso pare aprirsi quello diretto fra Isis e Iran, ovvero tra Arabia Saudita sunnita e Teheran sciita. E se il Deep State americano, incoronando Ryad nuova regina del Medio Oriente sunnita, avesse voluto spingere il Regno a un confronto diretto con Teheran, evitando a Washington di dover giocare un ruolo da protagonista? Sarà guerra a bassa intensità, conflitto ibrido tramite il terrorismo eterodiretto dello Stato islamico oppure qualcosa di più, magari usando l’affaire Qatar come alibi e arrivando all’azzardo di mettere mano allo Stretto di Hormuz per creare panico, anche sui mercati? Controllerei con attenzione l’open interest sui contratti long sul petrolio, tanto per capire cosa potrebbe succedere. A meno che, la risposta ce la dia un’altra volta un precedente storico. Ovvero, lo scandalo Irangate del 1985-’86, quando un traffico illegale di armi tra Usa e Iran (all’epoca sotto embargo), al fine di facilitare il rilascio di prigionieri americani rapiti da Hezbollah e di armare, con i proventi, la controguerriglia dei Contras contro i sandinisti in Nicaragua, stava per costare la presidenza a Ronald Reagan. Il quale, però, salvo se stesso, la sua immagine e la poltrona, siglando subito dopo l’accordo Inf con la Russia di Gorbaciov: la fine della corsa verso la Terza guerra mondiale deve passare ancora una volta dal caos in Iran? Solo il tempo ci darà risposta. Una cosa, però, mi fa pensare: perché colpire proprio ora l’Iran, garantendogli così il ruolo di vittima e non di sponsor del terrorismo?