Mario Draghi, per l’ennesima volta, respinge l’assalto dei falchi stavolta assai più insidioso, vista la crescita che sta prendendo velocità in Europa. Le Borse ringraziano, a partire da Piazza Affari, in festa per lo stop alla legge elettorale e, di riflesso, a un voto anticipato che non può che comportare l’ennesimo rinvio di misure di bilancio necessario (vedi lo spread che veleggia attorno ai 200 punti). Il presidente della Bce probabilmente concorda, ma deve limitarsi a ricordare che “ci sono sempre Paesi che si muovono in anticipo e altri che si muovono in ritardo. È ovvio che i Paesi con bassa crescita, debole posizione di budget e in ritardo sulle riforme strutturali soffriranno di più. L’elemento chiave è resuscitare la crescita”. Cioè la materia in cui l’Italia è senz’altro l’ultima della classe: quest’anno il Pil salirà dell’1%, in coda alle classifiche, ma nel 2018, salvo interventi strutturali, non si andrà oltre lo 0,8%, secondo le recenti stime dell’Ocse. Meno della metà del tabellino di marcia dell’eurozona, a giudicare dalle previsioni della Bce: per il 2017, l’Eurotower prevede ora un incremento del Pil pari all’1,9% (rispetto al +1,8% previsto in precedenza), mentre nel 2018 la crescita dovrebbe essere dell’1,8% (dall’1,7%). Migliora anche a 1,7% la stima per il 2019 (da 1,6%).



È in questa cornice che s’inquadrano le decisioni prese nella riunione di Tallinn dal direttorio della Bce, senza apparenti contrasti ma in pieno dissenso con l’opinione dei falchi che, per ora, hanno evitato lo scontro. L’unica concessione riguarda la scomparsa nel comunicato finale del riferimento alla possibilità di portare i tassi “più in basso”, nel caso lo richiedesse la situazione economica e finanziaria. In cambio Draghi ha ottenuto dal direttorio una conferma piena e quasi inattesa della politica espansiva della Banca centrale. Non si è parlato infatti di “tapering”: la Bce, quindi, continuerà a comprare titoli per 60 miliardi di euro al mese fino a dicembre. O anche oltre, se “le prospettive diverranno meno favorevoli o se le condizioni finanziarie” lo renderanno opportuno. Qualcosa di più di una conferma della linea di questi mesi. Soprattutto perché nel comunicato viene ancora una volta precisato che i tassi saliranno solo “ben oltre” la fine degli acquisti.



A render possibile il successo della linea espansiva è stata la frenata del petrolio, grazie a cui l’inflazione scende invece che salire:  solo +1,5% per il 2017 e +1,3% per il 2018, in calo rispetto alle stime precedenti (+1,6% nel 2017, +1,7% nel 2018). Il trend non dovrebbe cambiare nel 2019, quando l’inflazione, secondo le stime della Commissione, non andrà oltre l’1,6%, assai al di sotto dell’obiettivo previsto dalla banca centrale (poco sotto il 2%).

Insomma, la deflazione non fa più pura, ma la congiuntura è ancora fragile, per giunta esposta alle intemperie di una situazione internazionale ad alta tensione. Ancora una volta, in questa situazione scomoda, Draghi ha comprato tempo. Difficile però, che l’Italia non lo sprechi come ha fatto dl 2012 a oggi. E così lo spread con la Spagna, Paese che affronta e risolve le crisi bancarie in 48 ore, è tornato a salire a più di 70 punti, proprio come cinque anni fa, all’inizio del Quantitative easing.