All’assemblea dei soci di Mediaset di martedì scorso mancava il secondo azionista del gruppo, Vivendi. La sorpresa è limitata, perché sarebbe stato imbarazzante per tutti mettere insieme due soci, Fininvest e Vivendi, che negli ultimi mesi si sono lanciati accuse antipatiche e la cui “differenza di vedute” è già passata per avvocati e tribunali. La disdetta dell’accordo su Mediaset premium e poi la successiva scalata in borsa fino al 29% è stata ovviamente fonte di disaccordo. Il punto di vista di Mediaset è descritto efficacemente dalle parole del suo presidente: “L’obiettivo di Vivendi era, certamente fin dall’inizio, quello di entrare in Mediaset dalla porta di Premium per poi scalare la società”. Quello che è certo è che i metodi di Bollorè sono stati oggetto di critiche molto aspre e che queste critiche si trovano tranquillamente sui maggiori quotidiani economici internazionali. È singolare che una scalata nata e avvenuta in questo modo, prima con una disdetta di un contratto firmato e poi “contro” l’azionista e fondatore storico, abbia avuto per oggetto una società “sensibile” come il primo operatore privato televisivo italiano.



Per esempio, la liberalissima Inghilterra ha bloccato proprio in questi giorni l’offerta di Fox su Sky per il rischio che Murdoch abbia un’influenza eccessiva sulla politica inglese. Rupert Murdoch controllerebbe 21st Century Fox, Sky oltre ad avere la proprietà del Times, del Sunday Times e del Sun. È evidente a tutti che in alcuni settori, per esempio quello dei media, i dividendi di un investimento non si esauriscono nei numeri e che la proprietà di un settore non è indifferente per una democrazia effettiva. È lo stesso motivo per cui gli Stati Uniti richiedono come condizione la cittadinanza americana, che infatti Murdoch è stato costretto a prendere, prima di concedere la proprietà di organi di comunicazione. Il comportamento del governo italiano rispetto a un azionista criticato con pochissimo riguardo dal Financial Times e dal Wall Street Journal in questo senso appare decisamente anomalo.



Vivendi ha contestato apertamente la decisione dell’Agcom che richiedeva la riduzione della sua quota in una delle sue due partecipate italiane e cioè Mediaset e Telecom Italia. Vivendi, in sostanza, non solo non richiede un assenso da parte del governo italiano, ma sfida il “sistema Paese”; nelle stesse settimane il governo inglese chiede e ottiene che “il mercato” faccia un passo indietro. Nessuna società italiana sarebbe mai arrivata neanche lontanamente vicina a questo livello di scontro in Francia, soprattutto se l’oggetto del contendere fosse stato così delicato. Questo comportamento sembra presupporre una sostanzialità subalternità dell’Italia rispetto alla Francia, evidenziando una colonizzazione di fatto.



Il comportamento di Vivendi, in realtà, presuppone un altro elemento. Vivendi non si sarebbe lanciata in un’avventura così dispendiosa e complicata, senza il supporto del sistema Paese italiano, se non fosse stata convinta che i margini di miglioramento della gestione di Mediaset siano molto ampi. Nessuno deciderebbe di affrontare così tanti ostacoli a fronte di una spesa di centinaia di milioni di euro se non pensasse che alla fine ci sia un guadagno notevole. L’intervento di Vivendi non comunica solo la debolezza italiana, ma anche una fortissima convinzione che lo stesso oggetto, Mediaset, gestito in modo diverso possa essere molto più profittevole. Le critiche di Amber in assemblea supportano questa tesi: secondo il fondo che ha definito Mediaset “un’azienda vecchia, con una struttura di costi elevata”, “l’attuale gestione è deficitaria” e la società “è convinta di essere ancora di essere negli anni Ottanta e Novanta, ma oggi il mondo è cambiato e lo sono anche i concorrenti”.

In assenza dello Stato italiano ormai ridotto a un protettorato franco-tedesco, l’unica difesa per Mediaset è un miglioramento industriale che renda sempre più difficile per Vivendi scegliere se vendere, perché l’azione cresce, oppure comprare, perché il costo sale.