Avete notato come nello scorso weekend non si siano registrati praticamente sbarchi di migranti? Soltanto due interventi, roba che nemmeno a gennaio. Strana coincidenza: sul tema sbarchi infuria una polemica senza precedenti e proprio nei giorni di massima tensione questi si placano. Vuoi che ci sia una regia? Certo, tra Internet, tv satellitari e quant’altro, gli scafisti sanno benissimo cosa accade in Italia e in Europa, hanno certamente seguito il vertice di Tallinn e sanno dell’attivismo del ministro Marco Minniti, il quale alla riunione tecnica di oggi presso Frontex sarebbe pronto a un passo estremo: o si arriva alla condivisione sugli accoglimenti per chi sbarca o l’Italia è pronta a chiamarsi fuori dal programma Triton, quello che impone assistenza alle navi che trasportano immigrati. Sarà minaccia reale, questa volta o seguirà il corso della precedente, ovvero la famosa chiusura dei porti, durata meno di 24 ore come ipotesi?
Perché la questione migranti non è soltanto un tema sociale, è anche un tema economico. A essa è legata infatti una messe di soldi enorme, a partire dai famosi programmi di cooperazione – la logica dell'”aiutiamoli a casa loro” scoperta magicamente da Matteo Renzi -, fino alle strategia di contrasto degli scafisti e la cooperazione di intelligence, il cui primo passo è addestrare e fornire di strumenti adatti gli eserciti e le guardie costiere dei Paesi di partenza. Nel nostro caso, la Libia.
Permettetemi ora un breve salto logico. Nel mio articolo di ieri vi parlavo del World Oil Congress in corso fino a dopodomani a Istanbul, sottolineandone l’importanza strategica a livello di politica del prezzo del barile, tanto che Donald Trump vi ha inviato Rex Tillerson, ministro degli Esteri, ma, soprattutto, ex Ceo della ExxonMobile. E come stanno andando i lavori? Ecco la cronaca di ieri mattina di Repubblica: «Prezzo del petrolio in rialzo in avvio della settimana con il greggio Wti che sale di 49 centesimi a 44,72 dollari al barile e il Brent a 47,7. Spunti importanti arrivano dal congresso petrolifero mondiale in corso a Istanbul, dove i rappresentanti del Kuwait, secondo quanto riporta Bloomberg, avrebbero detto come sia possibile un limite alla produzione della Libia e della Nigeria, paesi fuori dall’accordo Opec. L’organizzazione dei paesi produttori ha comunque fatto sapere come non sia attualmente in discussione un ampliamento dell’attuale intesa». Insomma, la disperazione dell’ultimo meeting dell’Opec sta contagiando anche l’assise turca, visto che quando si arriva alla carta del taglio di produzione obbligato, significa non avere più nulla in mano.
E chi viene penalizzato? Lo Stato che sta vivendo il maggior esodo di propri cittadini verso le sponde dell’Occidente e quello che sta operando da hub operativo delle partenze: guarda caso. E, si sa, per Stati produttori come quelli, un taglio dell’output in regime di guerra totale per mantenere quote di mercato, significa ondate di instabilità politica e sociale. E nelle stanze che contano, quelle di cui non si conosce l’indirizzo, qualcuno sta giocando molto forte a livello geo-finanziario. Guardate questa mappa, ci mostra i confini attuali e quelli argomento di disputa nelle scenario geopolitico definito “Nuovo Medio Oriente”.
Come vedete, ci sono tre aree di grande frantumazione: quella che possiamo definire siro-irachena, quella yemenita e quella libica. Il primo scenario è noto e in queste ore stiamo assistendo alle prove tecniche di disgelo reale tra Usa e Russia, oltre alla liberazione totale di Mosul da parte delle forze sunnite. Il secondo è un chiaro proxy tra Arabia Saudita e Iran, il quale arma e sostiene le milizie houthi anti-saudite, con alle spalle i due grandi alleati, Washington per Ryad e Mosca per l’Iran. Il terzo scenario, quello della Libia, è aperto. E, temo, lo sarà per poco. Perché sia il primo che il secondo dimostrano come sia già in atto una guerra: quella per evitare il ritorno dell’influenza sciita sull’area. Uno scontro epocale, dentro il quale si innesta tutto: prezzo del petrolio, tratta dei migranti, destabilizzazioni più o meno dirette. Insomma, dietro al mero problema di gestione dei flussi c’è ben altro, c’è un conflitto che nessuno può permettersi di perdere: il nodo è sempre quello, Iran-Arabia Saudita.
E lo conferma la questione del Qatar, ovvero il ridicolo boicottaggio posto in essere dagli altri Paesi del Consiglio per la Cooperazione del Golfo, come ritorsione al fatto che Doha finanzi il terrorismo, soprattutto Hamas ed Hezbollah. Sul finire della scorsa settimana è scaduto l’ultimatum in dieci punti posto come conditio sine qua non per togliere l’embargo, ma non solo il Qatar ha fatto spallucce, per tutta risposta ha aumentato del 30% la produzione del gas, materia prima che va di pari passo con il petrolio, quindi un aumento dell’output dell’uno si sostanzia nella stessa dinamica per l’altro a livello di offerta e, quindi, di valutazioni. Oplà, il prezzo del greggio scende. Ecco cosa ha dichiarato ieri a Repubblica in un’intervista esclusiva, Awwad Al Awwad, il giovane ministro dell’Informazione e della Cultura del governo saudita: «Il Qatar fa finta di niente? Noi andremo avanti, il nostro impegno è necessario a correggere una profonda stortura. Il Qatar ha esagerato, ha contribuito a creare non solo un clima negativo, ma ha accresciuto i pericoli alla nostra sicurezza, ha sostenuto e finanziato terrorismo in tutto il mondo arabo e nella regione del Golfo. Noi andremo avanti per convincere il Qatar a tornare indietro».
E ancora: «Il comportamento del regime iraniano è la prova concreta del fatto che l’Accordo nucleare voluto dall’amministrazione Obama era uno sbaglio profondo. Molti credevano che, firmato quell’accordo, l’Iran si sarebbe dedicato a migliorare la sua situazione economica interna, a stabilizzare socialmente il Paese. E invece mai come da allora si sono lanciati in attività di destabilizzazione nello Yemen, in Siria, in Iraq, nella regione orientale dell’Arabia Saudita, nel Bahrein. Il loro obiettivo è di creare questa continuità sciita fino al Mediterraneo, un obiettivo per il quale sono pronti a passare sopra i Paesi della regione. Noi dobbiamo garantire la stabilità del Medio Oriente, che poi è la vostra stabilità».
Nemmeno Goebbels avrebbe saputo infilare una serie di bugie di questo livello senza vergognarsi, ma ormai siano agli schieramenti in campo, o di qua o di là: Repubblica abbiamo capito da quale parte stia, visto il carattere da zerbino garantito al ministro della propaganda di un Paese che fino all’altro giorno era il finanziatore numero uno dei terroristi e l’inferno dei diritti umani. E che la guerra in atto sia assolutamente sottotraccia, ma terribilmente seria, ce lo mostra questo grafico, il quale dimostra quale tipo di pressione stia subendo il mercato interbancario del Qatar in questi giorni: una vera e proprio corsa all’attrazione di dollari nella regione, pagando un premio sempre maggiore. Chi cederà prima, visto che Ryad sta pagando, oltre al prezzo basso del petrolio, anche i costi sempre più fuori controllo della campagna militare in Yemen?
È tutto, drammaticamente legato. Lo scontro è quello tra sciiti e sunniti, i protagonisti sul palco sono Iran e Arabia Saudita, mentre dietro le quinte si muovono in ordine sparso Iran, Russia, Cina, Stati Uniti e Israele. Chi manca all’appello? L’Europa, come al solito. Di fronte a una battaglia epocale, a un reset degli equilibri geopolitici che potrebbe durare un centinaio d’anni, l’Europa litiga sui ricollocamenti e sul trattato di Dublino, non capendo che la frontiera del nuovo mondo oggi è proprio il Mediterraneo che abbiamo alle porte di casa. Tutto si tiene, in questa partita e non giocarla sarebbe folle. Ma attenti, perché temo sia nell’aria la seconda iniziativa unilaterale della Francia in Libia, benedetta dal deep state statunitense, un qualcosa che l’Italia deve fermare a ogni costo. Non tanto e non solo per la questione migranti, che diventerebbe un’apocalisse in caso di attacco militare ma soprattutto di equilibri nell’area e di interessi economici legati a petrolio e gas, quest’ultimo protagonista della crisi in Qatar e dell’accordo miliardario proprio fra la transalpina Total e il governo iraniano la scorsa settimana.
Emmanuel Macron sta già giocando su due tavoli, attenti alle sue mosse. Il destino ha voluto che proprio ieri sia prematuramente scomparso Leonardo Maugeri, massimo esperto di petrolio italiano e uomo che portò l’Eni al raddoppio della produzione: fare l’interesse del Paese, per una volta, sarebbe un bel modo per onorarne la memoria e l’impegno. A partire dalla riunione di Frontex attesa per oggi.