Sapete qual è il principale alleato di Donald Trump rispetto all’economia? Il New York Times. Già, proprio il quotidiano che ha fatto del cosiddetto Russiagate la sua ragion d’essere e che, ironia della sorte, ha come editore di maggioranza Carlos Slim, ovvero un miliardario sì ma messicano, popolazione con cui Trump non ha vissuto un idillio in campagna elettorale. Ma anche il Washington Post è un alleato fedele, nonostante anch’esso – forse nel tentativo di rinverdire i fasti dello scandalo Watergate – stia picchiamo duro sui presunti rapporti illeciti tra l’entourage del presidente e funzionari del Cremlino. Già, lo stesso giornale il cui editore è Jeff Bezos, patron di quell’impero Amazon che sta letteralmente cambiando i paradigmi e i benchmark del commercio globale.
E come due quotidiani che mi attaccano dalla sera alla mattina potrebbero aiutarmi, quantomeno a livello di politica economica? Prendete per esempio l’ultimo scandalo, quello che vedrebbe il figlio del presidente, Donald Trump Jr, al centro di una relazione pericolosa con un’avvocatessa russa legata al Cremlino (nonostante lei lo neghi), la quale – prima delle elezioni negli Usa – avrebbe proposto all’erede di casa Trump del materiale compromettente contro Hillary Clinton. La relazione, quantomeno epistolare, è provata e il giovane Trump ha preferito dire subito la verità, mostrando l’intera catena di messaggi; quando la “fonte” dice di avere notizie, lui risponde “I love it”. Cosa prova? Di fatto, nulla, tantomeno che quelle prove esistessero davvero. Di certo, non sono state usate, altrimenti le avremmo lette sui giornali. Ma non importa, perché i mercati ormai vivono di percezioni, non di realtà. Vale per i rendimenti dei bond, il valore dei titoli azionari e anche per i Paesi: per l’esattezza, vale per la loro percezione di rischio e per uno dei suoi misuratori immediati, la valuta. E dopo l’ennesima puntata del Russiagate, l’euro si è rafforzato sul dollaro ai massimi da maggio 2016 a quota 1,146, mentre sempre il biglietto verde è sceso a 113,45. sullo yen, di fatto mandando in rosso le principali aziende esportatrici nipponiche alla Borsa di Tokyo.
Capito perché chi si ossessiona all’affaire con la Russia, sta facendo il bene di Trump e, di fatto, della Fed? Cosa vi dissi, fin dall’insediamento del tycoon, che nonostante i proclami patriottici e i toni da grandeur del dollaro forte, la Casa Bianca aveva un bisogno disperato di una valuta debole per pompare sull’export, come controbilanciamento della situazione macro interna? È un dato di fatto, il Russiagate sta facendo bene al dollaro, lo sta tenendo basso. E, nel contempo, sta danneggiando i competitor, i quali patiscono per una valuta non competitiva per le esportazioni. È guerra valutaria, combattuta attraverso un campagna stampa basata sul nulla e destinata a finire nel nulla. Ma utilissima. Anche a Jeff Bezos e Carlos Slim, i quali vedono i loro business denominati in dollari. E più la pantomima va avanti e diventa virale, vedi anche la guerra fra Trump e la Cnn a colpi di tweet e video, più questa percezione di America instabile pervade i mercati e più il dollaro rimane artificialmente debole, il tutto senza che la Fed debba muovere un dito (anzi, spaccia al mondo la favola del rialzo dei tassi e della normalizzazione della politica monetaria) e mettendo invece sotto pressione le altre Banche centrali, le quali sono costrette a continui adeguamenti emergenziali delle politiche espansive, impulsi di credito di cui godono indirettamente anche gli Usa.
E se mentre scrivevo questo articolo i mercati attendevano con ansia le parole che Janet Yellen ha pronunciato ieri sera davanti alla Camera dei Rappresentanti, le pagine economiche di Repubblica riportavano un articolo interessante riguardo questa dinamica in atto: i mercati hanno infatti fiutato la fine dell’era del denaro a costo sotto-zero inaugurata dalle Banche centrali e gli investitori si stanno comportando di conseguenza. Durante le ultime settimane si è praticamente dimezzata (dai picchi di un anno fa) la mole di obbligazioni con un rendimento negativo, ovvero quei titoli che per l’investitore rappresentano una scommessa “a perdere” se detenuti fino alla scadenza.
Stando al Bloomberg Barclays Global Benchmark Index e come ci mostra il grafico, le forti vendite di bond che sono partite negli ultimi giorni di giugno (quando un discorso di Mario Draghi da Sintra, in Portogallo, è stato caricato di una lettura da “falco” rispetto all’uscita dagli stimoli straordinari della Bce) hanno ridotto l’ammontare di titoli a rendimento negativo a quota 6.500 miliardi, dagli oltre 12mila miliardi che si registrarono subito dopo il referendum sul Brexit. Attualmente si tratta del 14% dell’indice, ai minimi da un anno e mezzo.
Insomma, una mano santa per alleggerire il carico a bilancio delle Banche centrali, intasate di titoli con rendimenti negativi: vuoi dire che siamo di fronte al primo, serio tentativo di sgonfiamento della bolla del leverage? Vuoi dire che quelle sell-off che fanno aumentare i rendimenti sono operate per conto delle Banche centrali? O, magari, fatte direttamente da loro, attraverso i mille proxies creati durante questi anni di regolamentazione totale dei mercati? Insomma, le Banche centrali vendono al parco buoi l’immondizia comprata per salvare le Banche e i fondi? Sarebbe un’operazione geniale, almeno quanto lo sfruttamento a fine valutario del Russiagate. Ma attenzione, perché in ossequio al proverbio del “chi si loda, si imbroda”, c’è un rovescio della medaglia di questo rialzo dei rendimento che starebbe “depurando” un po’ i bilanci delle Banche centrali. Ovvero, creare i presupposti per un’altra crisi asiatica, esattamente 30 anni dopo quella precedente.
Già, perché nonostante le mosse della Fed, l’incertezza implicita delle equities dei mercati emergenti è ai minimi storici, visto che l’Eem implied viaggia oggi a meno della metà della media storica di 29,7% e che i bond degli stessi stanno prezzando un rischio ai minimi dal dicembre 2007. Tutto bene, insomma? No, perché questa disconnessione è proprio il risultato dei tassi di interesse eccezionalmente bassi in tutto il mondo – compresi i rendimenti negativi che tanto preoccupano Fed, Bce e Bank of Japan -, situazione che crea la base di un azzardo morale che vede gli investitori gettare nel proprio basket di investimento qualsiasi asset, senza stare a guardare troppo la natura delle detenzioni: un po’ come quando si va al supermercato e si butta nel carrello un po’ di tutto, seguendo la gola e non ciò che ci serve per stare bene. «Sto cominciando a chiedermi se quel rumore che si sente in sottofondo non siano le campane di allarme, un po’ come accadde nel 2007», si chiede Anders Faergemann, senior fund manager alla PineBridge Investments di Londra, azienda che gestisce investimenti nel mondo per 80 miliardi di dollari.
E non basta: «Gli investitori focalizzati sui mercati emergenti stanno continuando a ballare, ma lo fanno stando sempre più vicini alla porta d’uscita: è una situazione pericolosa, stante anche il precedente del 2007, quando gli assets degli emergenti continuarono il loro rally per un lungo periodo, nonostante le valutazioni sotto stress». La bassa volatilità di mercato ha generato un torrente di flussi di capitale nel debito dei mercati emergenti, generando un risk taking eccessivo: «Il mercato è a un punto in cui non abbiamo ancora preso un grosso dosso sulla strada che abbia costretto tutti noi a svegliarci», scriveva nel suo report del weekend David Hauner, strategist a Bank of America-Merrill Lynch.
Ebbene, quel dosso si è palesato sui mercati proprio ieri, sotto forma di quanto rappresentato nel grafico sottostante: dopo aver vissuto un fenomenale primo semestre dell’anno, infatti, i debt funds dei mercati emergenti tracciati da Bloomberg, la scorsa settimana hanno vissuto una drenaggio record di capitali, qualcosa come 826,5 milioni di dollari spostati dall’Emb, più grande Etf legato a quel comparto: si tratta del massimo nella storia. E anche Deutsche Bank ha notato «un marcato rallentamento» dei flussi in ingresso nei mercati equity e debito degli emergenti. Non è che, tentando di sgonfiare una bolla, rischiamo di farne saltare un’altra, come nel 1997?
Certo, a ben pensarci tra gli emergenti c’è anche la Russia e qualcuno potrebbe avere l’idea di prendere due piccioni con un fava, oltretutto con i mercati plaudenti per quei rendimenti in rialzo che “puliscono” i bilanci delle Banche centrali.