L’altopiano di Jackson Hole, paradiso dei plantigradi, potrebbe essere quest’anno il luogo più adatto per celebrare il ritorno dell’Orso. Alla conferenza dei banchieri centrali che ogni anno si tiene sullo montagne del Wyoming, ci sarà, secondo il Wall Street Journal, un discorso di Mario Draghi. Non accade da tre anni, da quando cioè il presidente della Bce scelse questa sede per illustrare le caratteristiche del Quantitative easing. È possibile, ipotizza il quotidiano Usa, che Draghi abbia scelto la stessa sede per annunciare il prossimo avvio del tapering. È bastata questa ipotesi, confortata però dalle parole caute del presidente nella sua ultima uscita pubblica, il 27 giugno a Sintra, a seminare l’inquietudine sui mercati, con rilevanti aumenti dei rendimenti dei titoli di Stato italiani, rientrati venerdì dopo le rassicurazioni di Janet Yellen sui tempi dei rialzi della Fed.
Accelerazioni e frenate del genere sono destinate a dominare i mercati nei prossimi mesi. Come in parte è giusto che sia, perché fa parte delle arti del buon banchiere la capacità di tener sula corda più operatori. In parte, perché, come ha confessato la stessa Yellen, destinata a lasciare la Fed nel prossimo febbraio, a favore di Gary Cohn, stretto collaboratore di Donald Trump, l’orizzonte risulta incerto anche agli occhi delle banche centrali. L’enigma sta tutto qui: in passato, obbedendo alla curva di Phillips, l’aumento dell’occupazione e dei salari ha provocato l’aumento dei prezzi. Per evitare l’impennata dell’inflazione e, di riflesso, l’insorgere della stagflazione (crescita che ristagna, prezzi in salita), cioè il fenomeno che ha distinto l’Occidente a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, è necessario in questi casi spegnere per tempo l’incendio dei prezzi. Altrimenti, in caso di intervento tardivo, il mondo dovrebbe affrontare una fase di tassi a doppia cifra. Ma per ora, sfidando il pieno impiego dell’economia Usa e, non meno importanti, di Germania e Giappone, l’inflazione non si è risvegliata.
Fino a poco tempo fa la spiegazione poteva essere individuata nel serbatoio di forza lavoro inutilizzata oppure nell’influenza dell’economia digitale, che ha provocato un forte abbassamento dei costi. O, più ancora, nella stentata ripresa degli stipendi, fenomeno però ora evidente in Germania e in una parte rilevante dell’economia americana. Oggi però negli Stati Uniti la disoccupazione è scesa su un livello che in passato ha sempre fatto partire l’inflazione salariale. L’Europa raggiungerà questo punto, secondo la Bce, all’inizio del 2019. Poiché la politica monetaria produce i suoi effetti in uno-due anni e deve quindi essere preventiva, la Fed dovrebbe già essere da tempo in fase restrittiva (quando ancora non siamo al neutrale) e la Bce dovrebbe essere neutrale (quando invece è ancora espansiva). Questo ritardo dimostra che le banche centrali non sono cieche nella loro fede nella bontà curva di Phillips, dal nome dello studioso neozelandese che mise a punto il modello, ma anche l’incertezza generale in buona parte legata al cambiamento profondo della società, ancor più dell’economia.
Le regole classiche, compresa la curva di Phillips. funzionavano bene quando il mondo del lavoro era omogeneo, era organizzato sindacalmente e aveva un mercato su base nazionale come ancora accade in Germania. Nel resto del mondo, però, molto è cambiato. I sindacati, cui il New Deal e le legislazioni europee del dopoguerra avevano dato un potere crescente, sono oggi più deboli così come la forza lavoro insidiata dalla concorrenza di Paesi a minor costo o dall’automazione.
Il risultato? Forse il paradigma è cambiato. Oppure è senz’altro ritardato e certi fenomeni si presenteranno più avanti. Teniamoci il dubbio, nella speranza che Mario Draghi non sbagli i calcoli.