Ha ragione Mario Monti. Nella intervista di ieri al Corriere della Sera afferma orgogliosamente di aver “lasciato a chi è venuto dopo una finanza pubblica riequilibrata, un Paese uscito dalla procedura di disavanzo eccessivo, integro nella sua sovranità senza cessioni di poteri alla troika, uno spread ridottosi ad un terzo di quello trovato, un processo di riforme avviato, una governance europea migliore”. Ma ha ragione anche Matteo Renzi: la prossima riforma, la riforma forse più grande di tutte, deve essere quella fiscale. Per questa ci vogliono cinque anni, un’intera legislatura e occorre gestire con flessibilità il bilancio pubblico.



Come possono avere ragione entrambi? Monti nel 2011 è intervenuto soprattutto aumentando le imposte: la pressione fiscale è salita di due punti (dal 41,6% al 43,6%) e ha peggiorato la congiuntura portando l’Italia in una seconda recessione (il Pil si è ridotto del 2,8%) come ricorda lo stesso Renzi. I governi successivi dovevano invertire la rotta senza peggiorare il debito pubblico, ma non ci sono riusciti. Ha fallito Enrico Letta che ora si lamenta della coltellata alle spalle inferta da Renzi e dal Pd, sinistra compresa. Ha fallito lo stesso Renzi partito bene e finito con una sconfitta cocente sulla madre di tutte le riforme, quella costituzionale.



Adesso l’economia italiana è in una situazione per molti versi migliore. La Banca d’Italia ha aumentato all’1,4% le sue previsioni di crescita del prodotto lordo e segnali incoraggianti arrivano non solo dalle esportazioni, ma anche dai consumi interni. Tuttavia nello stesso tempo il debito pubblico continua a salire, mettendo a segno un record dopo l’altro. Proprio questa è la contraddizione di fondo da affrontare già con la prossima legge di bilancio e ancor più con il programma per le ormai vicine elezioni.

Sia il governo, sia la banca centrale non ritengono realizzabile alcuna misura per ridurre lo stock del debito una volta per tutte, per loro la via maestra è la crescita con i conti pubblici sotto controllo (ciò significa aumentare l’avanzo strutturale, non il disavanzo come propone invece Renzi). Si tratta di portare il Pil reale verso un aumento di due punti percentuali così che, con un’inflazione che supera l’uno per cento, si realizza il miracolo statistico di un debito che comincia a scendere rispetto al prodotto lordo. Un sentiero stretto, ma non impossibile, sottoposto però a tutte le incognite che vengono dalla congiuntura interna ed esterna. Dunque, bisognerebbe dare una spinta alla macchina dell’economia senza peggiorare il disavanzo e, di conseguenza, il debito. I due incentivi fondamentali sono gli investimenti (pubblici e privati) e la riduzione delle imposte. Ma allo stato attuale non ci sono spazi, dunque Pier Carlo Padoan si trova ancora una volta a camminare come un funambolo su una corda sottile.



C’è bisogno senza dubbio di più investimenti in infrastrutture, tuttavia il loro impatto in un Paese come l’Italia è, se va bene, di lungo periodo. Tra il fronte del No, le procure, gli enti locali, le lobby, i gruppi d’interesse, la demagogia populista, ci vogliono anni solo per aprire i cantieri. La cosa più ragionevole a questo punto è lasciare che il governo gestisca senza troppi danni la prossima manovra di bilancio e aprire nel frattempo una discussione fondata su dati e proposte concrete per mettere all’ordine del giorno della prossima legislatura una vera riforma fiscale.

Renzi ha avuto il pregio di dirlo, sia pure nel suo modo scomposto e decisamente bullesco e aprendo un inutile contenzioso polemico con l’Unione europea. Tutti gli altri tacciono. Matteo Salvini è ossessionato dagli immigrati, la Lega parla di flat tax, ma come uno slogan senza contenuti concreti. Silvio Berlusconi deve farsi perdonare di aver detto anzitempo, addirittura nel 1994, che bisognava ridurre le imposte sul reddito, ma non lo ha fatto (sono passati ben 23 anni dall’annuncio della sua “rivoluzione liberale”!). Quanto al M5s perde tempo a inventarsi monete improbabili come il sesterzo, blatera su questo e quello, ma non ha nessuna proposta fiscale, né seria né immaginifica.

L’Istituto Bruno Leoni ha proposto una imposizione unica del 25% su base familiare e ne ha simulato gli effetti sui redditi, anche sulla loro distribuzione (secondo le prime stime sarebbe molto più equa del sistema attuale). Si è aperta una discussione tra esperti ed economisti su come realizzarla e sulle risorse per finanziarla senza aggravare il bilancio pubblico. Al dibattito non hanno partecipato finora i partiti in tutt’altre faccende affaccendati. La flat tax andrebbe valutata in modo oggettivo e con spirito bipartisan perché, al di là delle questioni tecniche, per introdurla avrebbe bisogno di un largo consenso nel Paese non solo tra le forze politiche. Niente del genere è all’orizzonte. Ma hic Rhodus hic saltus, dimostra qui e ora quel che vuoi e sai fare.