Messe in sequenza e lette con attenzione le relazioni del presidente dell’Abi Antonio Patuelli, del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni – tenute in settimana all’assemblea dell’Associazione bancaria italiana e all’inaugurazione della nuova sede romana della Bnl – mantengono gli stessi toni, esprimono concetti analoghi, appaiono motivate dallo stesso spirito. E, cosa ancora più strana, sono tutte attraversate da una nuova considerazione della questione industriale come questione nazionale sottesa alla crescita – unico modo per smarcarsi dalla schiavitù dell’alto debito pubblico -, quasi facendo l’occhiolino alle tesi del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. Si potrebbe dire, senza timore di essere smentiti, che si riscontra un’identità di vedute in un certo ambiente economico mai sperimentata prima d’ora.



Certo, la cronaca sta qui a ricordarci che l’indigenza in Italia non è vinta e l’Istat calcola in 4.742.000 i poveri assoluti e in 8.465.000 i poveri relativi nel 2016 senza apprezzabili variazioni sull’anno precedente. Un dato che potrebbe far cadere nello sconforto se non fosse accompagnato da qualche buona notizia sul fronte del Prodotto interno lordo, degli investimenti e dell’export che aumentano più delle previsioni facendo sperare in una ripresa meno effimera di quella temuta. Insomma, le luci potrebbero finalmente soverchiare le ombre.



E poi c’è un modo di raccontare le cose che sta cambiando. Tra le grandi pennellate di nero che ricoprono il Paese al Nord al Centro e al Sud (ogni latitudine ha i suoi problemi) comincia a vedersi un po’ di rosa come espressione di una fiducia montante in chi governa il Paese per la consapevolezza che una strada verso lidi migliori è stata finalmente tracciata. Tracciata non vuol dire che sia stata percorsa, ma è il primo elemento di conforto se davvero si vorrà intraprendere il cammino della ripresa e di un rinnovato sviluppo.

Cambia la prospettiva, dunque, e cambia di conseguenza la narrazione che comincia finalmente a fare i conti con le opportunità di una nazione che possiede la seconda manifattura in Europa, dopo la Germania e incalzata dalla Francia, nonostante i tanti vincoli che ancora ne rallentano l’azione. Piuttosto che limitarsi a rammaricarsi di questi s’intravede una voglia tutta nuova di prendere la rincorsa e consolidare il posto che la capacità dei nostri imprenditori e dei nostri lavoratori ci hanno fatto conquistare nel mondo.



Politica dei fattori, innovazione, recupero della produttività, spinta competitiva, alleanza per la crescita in una dimensione europea che sappia distinguere gli intoppi burocratici (da superare) dai vantaggi che l’Unione garantisce (e che sempre meglio dovrà garantire) sono tutti concetti che sembrano essere diventati patrimonio comune di un ceto dirigente sempre meno condizionato dall’ideologia e sempre più guidato da un sano pragmatismo. Il denominatore comune è la certezza che la strada delle riforme vada percorsa fino in fondo.

Senza scoraggiarsi se i risultati non arrivano subito, senza mollare prima che le misure messe in campo possano produrre gli effetti attesi, senza interrompere il percorso avendo pazienza e fiducia nel perseguimento di un piano di medio e lungo periodo. Poi, naturalmente, c’è la competizione elettorale che incombe…