Con la Francia di Emmanuel Macron alle stelle e l’Italia sempre al tappeto in Europa, è inevitabile che Telecom-Tim muova verso il capolinea francese di Vivendi con passo triste e soprattutto solitario. A difendere Flavio Cattaneo sulla poltrona di Ceo – a parte alcuni media distratti e poco convinti – si è notata solo la Consob, anch’essa per onor di firma. Lo stesso ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda si è limitato a un virgolettato d’agenzia.



“Appianate le tensioni con Tim sulla banda larga”: non volto la testa dall’altra parte quando Vincent Bolloré sta rimuovendo Cattaneo per collocare al vertice del primo operatore tlc italiano l’ex ufficiale dell’esercito israeliano Amos Genish. Però è poco per un ministro ambizioso che alcuni mesi fa ha messo sul tavolo del governo un progetto di bazooka contro le scalate estere ad aziende italiane considerate strategiche. Per di più l’idea era balenata a Calenda contro lo stesso Bolloré, il quale dopo aver raggiunto il controllo di Tim aveva messo sotto scalata anche Mediaset. Ma le cose da allora sono molto cambiate e forse sono destinate a cambiare ancora.



Calenda è il più accreditato “Macron italiano” e ha separato la sua strada da quella di Matteo Renzi, grande avversario di Bolloré e della sua Tim a favore di Enel sulla banda larga. E mentre Renzi ha dovuto cedere a Paolo Gentiloni la poltrona di premier, le relazioni con Silvio Belusconi restano alterne e accidentate. Le tensioni fra il Cavaliere, intanto e il suo antico sodale francese, intanto, sembrano quanto meno congelate. Né può essere dimenticato il fallimento del tentativo di controffensiva strategica di Renzi contro Bolloré: il progetto di Opa di Intesa Sanpaolo sulle Generali, affondo al cuore del residuo “impero Mediobanca” di cui il finanziere bretone rimane azionista-pivot.



Che Tim sia saldamente passata sotto controllo francese è comunque un fatto da un paio d’anni: anche se solo lo scorso maggio l’Antitrust Ue ha dato via libera condizionato alla nuova situazione. L’avvento di un manager espresso da Vivendi – ancorché temperato dalla presidenza formale di Giuseppe Recchi e dalla presenza persante in consiglio dell’ex Ceo Franco Bernabé – è quindi un esito scontato e non consente a nessuno di stracciarsi neppure il bordo della veste. Resta la fredda cronistoria recente dell’ex Stet-Sip, monopolista pubblico dei telefoni: forse la narrazione-metafora più attendibile della parabola del Paese nella contemporaneità.

La privatizzazione di Telecom viene imposta nel 1993 dal commissario belga alla Concorrenza Ue Karel Van Miert al ministro degli Esteri italiano Beniamino Andreatta come pedaggio per l’ingresso dell’Italia nel primo gruppo dei paesi-euro. Il collocamento in Borsa con Opv – secondo lo “schema Britannia” imposto da Goldman Sachs & C. al Tesoro italiano – consegna Tim alla famiglia Agnelli, che tuttavia rileva solo lo 0,6% (vent’anni dopo la Corte dei Conti ha valutato l’operazone come un sostanziale danno erariale).

Al culmine dei dorati anni ’90, Wall Street costruisce attorno a Telecom “la madre di tutte le Opa” utilizzando Roberto Colannino e la “razza padana” come taxi d’occasione, sotto la pesante protezione del governo D’Alema. Già due anni dopo il gruppo – spolpato dall’Opa a leva finanziaria – Telecom viene “restituito” all’Azienda-Italia: con una delle tante “operazioni di sistema” che hanno sempre brillato poca per fortuna industriale. La Pirelli di Marco Tronchetti Provera diviene il nuovo veicolo per le banche di sempre o quasi (Intesa e UniCredit). Nel 2007 Tronchetti prova un “balzo in avanti”: lo scorporo della rete e la trasformazione di Telecom in media company (allora con l’intervento del finanziere sudamericano Carlos Slim e di Rupert Murdoch). Il controverso stop imposto da Romano Prodi, lui stesso in declino politico, misero in freezer tutte le problematiche ma anche le potenzialità del gruppo. L’interregno di Mediobanca-Generali con Intesa Sanpaolo e la spagnola Telefonica come partner ha solo ritardato la “rottamazione” finale di una Tim che certamente sopravviverà e forse conoscerà nuove fasi di sviluppo, ma non sarà più una risorsa per l’Italia. Poteva andare molto diversamente.