Oltre a rialzare le stime sulla ripresa economica, la Banca d’Italia ha evidenziato una nuova crescita del debito pubblico nel mese di maggio. Non è certo un buon segnale considerando che la Commissione europea è pronta a concedere flessibilità sul bilancio 2018 in cambio dell’impegno dell’Italia a ridurre proprio il debito, ovviamente in rapporto al Pil. «L’apertura a più deficit e la richiesta di diminuzione del debito pubblico da parte dell’Ue – dice Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano – sembrano due cose destinate a elidersi. Il punto è che non abbiamo bisogno in prima battuta di ridurre il debito».
Cosa intende dire Professore?
Nel 2007 l’Italia aveva un rapporto debito/Pil sotto il 100%. In meno di dieci anni siamo arrivati oltre il 130%. Un marziano che arrivasse nel nostro Paese potrebbe chiedersi come ciò sia stato possibile. La risposta è che c’è stata una crisi fortissima, specie nel 2012-2013, con una diminuzione del Pil e dei redditi. Non ci vuole uno scienziato per capire che abbiamo quindi bisogno in primo luogo di crescita, che anche Bankitalia dice che nemmeno nel 2019 tornerà ai livelli precedenti il 2007. Diminuire il debito con misure di austerità, come fatto finora, non ha senso. Bisogna poi capire quale cifra si potrà ottenere da Bruxelles e per quale scopo verrà usata.
Pare che l’intenzione sia tagliare il cuneo fiscale per le assunzioni dei giovani o di altri soggetti svantaggiati…
Abbiamo già fatto misure di fiscalizzazione degli oneri sociali, ma i risultati sono stati scarsi. Se tagliamo il cuneo fiscale significa che il costo orario del lavoro diminuisce. Questa diminuzione va a beneficio di chi? Delle imprese. Questa si chiama svalutazione interna, punto. Quel che ci serve è altro e posso fare un esempio pratico per farlo capire.
Prego.
La Germania è cresciuta sull’impeto di un enorme aumento delle esportazioni rispetto al Pil. Un rapporto che prima dell’introduzione dell’euro era più o meno simile al nostro, al 27%. Adesso noi siamo al 30%, la Germania al 45%. Il manifatturiero è senz’altro il settore a più alta vocazione export. Qui, il costo orario del lavoro tedesco è intorno ai 33 euro, mentre il nostro è di circa 27. Dunque non è il costo del lavoro a spiegare la differenza di “performance” tra i due paesi. Si dice che essa dipenda dalla produttività, che è misurata come valore aggiunto per ora lavorata. Il quale a sua volta comprende gli oneri sociali e i salari, entrambi un po’ più alti in Germania che in Italia.
Dunque non è nemmeno qui che si può trovare la causa della differenza…
Esatto. Allora qual è l’elemento chiave? Il fatto che la Germania finora ha potuto contare su un settore industriale molto innovativo, con grandi aziende, una rete di medie imprese robuste sostenute in modo intelligente dal sistema bancario, nonostante i “buchi” di quest’ultimo. Tutto questo si chiama competitività. La capacità di andare sui mercati esteri nasce da questo più che non dal puro costo del lavoro. Non dimenticano poi che se diminuiamo gli oneri sociali bisognerà tagliuzzare qua e là il sistema di sicurezza sociale del nostro Paese.
Quale misura riterrebbe quindi più efficace rispetto al taglio del cuneo fiscale?
Molto meglio un intervento come il piano Industria 4.0. Quanto meno è chiaramente mirato a fare in modo che il settore industriale si doti delle tecnologie all’avanguardia. È una misura a mio parere intelligente, mentre il taglio del cuneo fiscale non fa la differenza sulla competitività.
In questi giorni si è parlato molto della proposta di Renzi: deficit/Pil al 2,9% per cinque anni per tagliare le tasse e stimolare così la crescita. Cosa ne pensa?
Se la proposta resta così è troppo vaga e generica. Bisogna dire chiaramente cosa si vuole fare e attraverso quali canali. O noi abbiamo misure che chiedono risorse per fare investimenti intelligenti oppure sono soldi buttati al vento.
(Lorenzo Torrisi)