Come ampiamente preventivato e preventivabile, la legge sullo ius soli è passata in cavalleria. Non ci sono i numeri, se ne riparlerà in autunno. Bugia, perché stando a calcoli di funzionari parlamentari di lungo corso, dalla ripresa autunnale dei lavori allo scioglimento delle Camere per la fine della legislatura (fine febbraio), le giornate di voto reale in Aula saranno 45 in tutto. Con il Def che incombe, dubito che il governo andrà in cerca di nuove rogne con le urne in vista, con buona pace di Laura Boldrini. Certo, non una bella figura per l’esecutivo, né per il Pd, il quale fino al giorno prima del comunicato di Paolo Gentiloni millantava di ribaltare il mondo in difesa di quella legge: è cascato tutto come un castello di sabbia, senza far rumore. E tutto, per l’opposizione di Alternativa Popolare, annunciata, la quale non garantiva più i numeri necessari al Senato e poneva quindi l’esecutivo di fronte all’azzardo di un voto di fiducia che avrebbe potuto tramutarsi in caduta del governo. Insomma, una crisi controllata, esattamente come i crolli degli edifici.
Ora, spostiamoci Oltreoceano. Il seppellimento della nuova riforma sanitaria di Trump (la prima non era stata neanche votata, visti i voti risicati) è stato certificato lunedì sera con il “no” di altri due senatori repubblicani: Mike Lee dello Utah e Jerry Moran del Kansas. Queste ultime defezioni si sono aggiunte alle due di domenica, quando a mollare la Trumpcare sono stati Susan Collins del Maine e Rand Paul del Kentucky. E nel frattempo John McCain, l’oppositore interno più duro nei confronti di Trump, ma paradossalmente favorevole all’abolizione della riforma di Obama, è ancora ricoverato in ospedale per un problema all’occhio, che pare essere più grave del previsto: «Ci vorranno forse alcune settimane», ha fatto filtrare il suo staff medico. Risultato: su 52 seggi al Senato (su 100 complessivi), i repubblicani avrebbero adesso al massimo 47 voti. Non bastano. E così anche la seconda versione della Trumpcare è finita nel cestino.
Insomma, crisi vera per i Repubblicani, i quali ora dovranno reagire all’ultima boutade del presidente: annullare del tutto la riforma di Obama e riscriverla da capo. Incertezza assoluta sul tema, ma, soprattutto, percezione di ingovernabilità, visto che se passasse la linea della Casa Bianca, qualche decina di milioni di persone negli Usa resterebbe senza copertura medica. Risultato? L’euro è salito sopra quota 1,15 sul dollaro, spedendo il biglietto verde ai minimi da dieci mesi sulla divisa europea. Due crisi, due modi di affrontarle. Ma, soprattutto, una certezza: in America il gioco delle parti è ormai l’unico pattern che sostiene la politica, in attesa che la Fed sveli le carte.
Come in Italia si è potuto evitare un tonfo del governo, fermandosi un centimetro prima del burrone del voto d’Aula sullo ius soli, così si poteva fare anche in America, stante alcune priorità decisamente maggiori: invece, Oltreoceano necessitano dell’esatto contrario di quanto serve al nostro Paese. L’idea di fragilità è, paradossalmente, la nuova forza di Washington: se il mercato comincia a prezzare come una boutade totale l’intera narrativa economica di Trump, il dollaro non potrà che continuare a indebolirsi. Il tutto, con un timing che ci dirà molto, visto che domani si riunirà il board della Bce, chiamato a dare indicazioni sull’eventuale tempistica del tapering del programma di acquisti. «Tutte le Banche centrali aspettano di vedere come Draghi svilupperà la sua politica monetaria», ha dichiarato a Bloomberg Janwillem Acket, capo economista di Julius Baer a Zurigo: «Lasceranno che Francoforte muova i primi passi, poi risponderanno». A dire il vero, per ora gli analisti si aspettano tutt’al più qualche segnale dalla Bce, qualche modifica al linguaggio usato nel comunicato finale, ma ogni decisione sullo stop agli acquisti del Quantitative easing dovrebbe esser rimandata a settembre.
Come notano da Abn Amro, anzi, nell’ultimo mese i mercati hanno scontato un irrigidimento delle condizioni finanziarie e i titoli di Stato ne hanno in parte risentito: è probabile che la Bce non voglia mettere ulteriore benzina sul fuoco. A livello macro Ue, poi, l’indice Zew sulla fiducia degli investitori tedeschi è sceso a luglio più del previsto, scivolando a 17,5 punti dai 18,6 punti di giugno: il risultato è inferiore alle stime degli economisti, che si aspettavano un calo più contenuto a quota 18. Ora, al netto dei giochini contabili sul Qe come reagirà Draghi al continuo rafforzamento dell’euro, a fronte di un dato dell’inflazione che permetterebbe nuova espansione, ma con la Germania che non vuole sentirne parlare? Gli Usa, piaccia o meno, stanno mettendo in atto una guerra valutaria non convenzionale, tutta politica. Spacciano a piene mani la loro instabilità interna, esattamente come la Cina spacciava deflazione attraverso la super-offerta di commodities: e, senza obbligare la Fed ad azzardi, beneficiano di un dollaro debole.
L’Ue come reagirà a questa mossa? Perché deve reagire, quell’1,15 è soglia psicologica, ancorché i giornali – subissati di altre emergenze più mediatiche – non lanceranno allarmi in tal senso. E noi ne sappiamo qualcosa. Al netto dell’ottimismo di Bankitalia e del Qe di Draghi, la situazione del credito non è affatto rosea per le aziende, quindi il combinato con minor competitività sul mercato export – unica voce realmente in aumento a livello macro – dovuta a un euro forte potrebbe piegare le pmi italiane proprio nel momento peggiore. A quantificare il danno per le aziende è stata l’altro giorno la Cgia di Mestre, a detta della quale «in questi ultimi 3 anni di grave crisi del nostro sistema creditizio (aprile 2017 sullo stesso mese del 2014), la contrazione degli impieghi bancari alle imprese italiane ha continuato ad aumentare: -62,4 miliardi di euro». Gli artigiani veneti denunciano che proprio la loro regione, patria dei fallimenti di Veneto Banca e Popolare di Vicenza, è stata quella che ha pagato il conto più caro, anche considerando l’esposizione all’area di Mps (via Antonveneta) e le crisi di alcune Bcc locali.
La stretta sul credito veneto è stata «senza precedenti: -10,7, contro una media nazionale del -6,8 per cento. In termini assoluti, alle aziende venete sono stati tagliati 10,8 miliardi di prestiti (pari al 17,3 per cento del dato nazionale): solo la Lombardia ha registrato una diminuzione in valore assoluto superiore (-15,9 miliardi di euro), anche se va ricordato che in quest’ultima realtà territoriale è ubicato un numero di imprese attive pari al doppio di quello presente in Veneto». Sembra paradossale che il destino del nostro export manifatturiero di eccellenza sia legato alla riforma dell’Obamacare o al Russiagate, ma è così: il silenzioso riallineamento del dollaro alle altre valute sta segnando il passo, il tutto dopo il crollo del mercato cinese di lunedì che ieri mattina ha visto intervenire il “National Team” per bloccare i tonfi e garantire un minimo di artificiale sostegno macro alla narrativa di una crescita cinese al 6,9% contro le attese del 6,5%.
Attenzione, la Cina sta giocando con il bilancino per evitare di esporre troppo la sua bolla creditizia, ma non manca molto al fatto che sarà ancora una volta l’esportazione in grande stile di deflazione, il nemico contro cui dovremo combattere. Se Draghi metterà l’accento sulle dinamiche dei cambi, allora lancerà un chiaro segnale ai mercati: Francoforte non sta dormendo e quella traversata di quota 1,15 sul dollaro è stato un segnale forte e chiaro, cui reagiremo. Come, operando il tapering? Impossibile, c’è un mercato azionario e uno obbligazionario corporate che non lo permettono. E c’è, soprattutto, Capitol Hill che lavora a favore dell’economia Usa, permettendo alla Fed di stare ancora per un po’ alla finestra, evitando di sprecare munizioni in un contesto che è quello rappresentato nel grafico: ovvero, quello di un mercato azionario che dalla crisi in poi è stato in piedi solo per gli acquisti corporate non finanziari, quindi di fatto un enorme parco buoi che pompava denaro solo in base allo schema Ponzi dei tassi a zero delle Banche centrali.
Ora, il rischio è che quel compratore onnivoro si fermi, fino a quando proprio le Banche centrali non daranno segnali chiari sul futuro, il tutto mentre la smart money ha già venduto tutto ciò che poteva. In punta di piedi e sfruttando i cali tecnici da trimestrali, ovviamente. Paradossalmente, il board di domani a Francoforte sarà il più importante dell’anno, perché ci dirà quale sentiero si deciderà di intraprendere. E, quindi, ci farà capire qual è la vera priorità, la vera mina anti-uomo sul sentiero dell’eurozona. Io, purtroppo, ho un vago presentimento al riguardo.