La settimana prossima, a Berlino, si terrà il G20. Per la prima volta, dieci anni dopo il debutto di quest’appuntamento, i Grandi si incontreranno senza l’assillo della Grande Crisi scoppiata nel 2008: gli Stati Uniti, pur senza brillare, si presentano con un sistema bancario in buona salute, al punto che la Fed ha autorizzato una pioggia di dividendi e di buybacks da parte delle grandi banche, mentre il tasso di disoccupazione staziona poco sopra il 4%. La Cina, in forte espansione da undici mesi, si avvia al Congresso del Partito con dati brillanti. Prima o poi sarà necessario intervenire sul debito che, tutto compreso, vale più di tre volte il Prodotto interno lordo. Ma per ora la barca va. In Europa, una volta superate le insidie elettorali francesi, si respira aria di boom. Anche l’incognita più insidiosa, la crisi delle banche italiane, sta per andare a posto.
Al giro di boa di metà anno, il bilancio dell’economia globale è senz’altro positiva. Certo, le incognite non mancano. E tra queste l’emergenza immigrazione minaccia da vicino la stabilità, ancor prima della crescita, della navicella Italia. Intanto, si profila al summit di Berlino un nuovo, aspro duello sul protezionismo anticipato da una sortita durissima di Angela Merkel agli Stati Uniti. Il confronto tra gli Stati Uniti e la Germania, motore dell’Unione europea, è senz’altro destinato a dominare la scena internazionale nel prossimo futuro. Gli Stati Uniti minacciano dazi e altre misure restrittive contro il surplus commerciale tedesco. Berlino ha già anticipato che saprà reagire ad “atti di guerra economica”. Intanto, non a caso, l’Unione europea moltiplica le ritorsioni contro i Big d’oltre Oceano, come dimostra la mega-multa inflitta a Google. La guerra commerciale è l’incognita che può mandar fuori giri il motore della ripresa, con gravi riflessi sull’export italiano, Paese che si sente orfano in questa fase di evoluzione delle alleanze.
Intanto la fiducia di consumatori e imprenditori sale anche in Italia alla faccia dei messaggeri di sventura. Nonostante, o forse proprio per questo, i mercati finanziari segnalano nubi in arrivo che possono trasformarsi in gravi turbolenze. Sembra un paradosso, ma c’è una logica dietro l’apparente follia: le banche centrali ritengono che, una volta passata l’emergenza, si debba tornare con gradualità a un costo del denaro a livelli “normali”, tale da riconoscere un premio agli investitori. Dopo dieci anni di offerta a condizioni molto agevolate o addirittura a tassi sotto zero, cosa che ha permesso di evitare il bis della Depressione anni Trenta, i banchieri ritengono che sia urgente rimettere sotto controllo la politica monetaria per evitare brutte sorprese in caso di una recessione che, nella situazione attuale, troverebbe le banche centrali disarmate.
Di qui la prospettiva di una stretta, all’inizio soft per evitare brutte sorprese. Una mossa a rischio, se si pensa che la ripresa è assai modesta, per ora, rispetto all’uscita dalla crisi in precedenti recessioni. Soprattutto perché l’inflazione non risale, con gravi danni per gli Stati, più o meno tutti indebitati, che necessitano di tassi morbidi. Ma le banche centrali hanno scartato la tesi di Lawrence Summers e Joseph Stiglitz che consigliano di rivedere i target dell’inflazione dal 2% al 4%, favorendo così nuovi debiti e nuova spinta all’economia grazie a ulteriori mezzi pubblici. È passata, al contrario, l’idea che la moderata crescita dei prezzi e delle economie dipenda da condizioni strutturali: l’avanzata del digitale, che comporta un taglio dei costi; l’invecchiamento della popolazione nei Paesi avanzati, che riduce la spinta agli investimenti e spinge ad aumentare le risorse per la previdenza, a danno dei tassi di sviluppo.
E così, nonostante le polemiche crescenti tra le due rive dell’Atlantico (e sui due versanti della Manica, visto il decollo zoppicante del negoziato sulla Brexit), i banchieri centrali hanno dato il via a una manovra convergente: Stati Uniti, Canada e (forse) Regno Unito hanno appena alzato o alzeranno i tassi a breve. L’Europa, che vuole concedere all’Italia un altro anno e mezzo di tassi bassi, farà la sua parte attraverso il cambio. L’euro più forte avrà un effetto moderatamente restrittivo sia per le conseguenze dirette sulla bilancia commerciale, sia per l’effetto depressivo sulle borse europee. Il dollaro più debole, d’altra parte, renderà più facile per la Fed continuare ad alzare i tassi. Si spiega così, tra l’altro, la flessione dei titoli tecnologici, balzati alle stelle grazie anche al denaro abbondante a basso costo. O la fretta dei settori che più dipendono dal debito, cioè le utilities. Salgono al contrario le banche nella speranza che tassi più alti consentano agli istituti di prestare denari con buoni profitti alle aziende che tornano a investire.
Il dato più rilevante, però, è che le banche centrali stanno ritirando la rete di protezione che ha difeso il mercato azionario innaffiando il sistema con denaro a basso costo. Il Toro, insomma, sta per perdere i suoi grandi protettori. L’Orso, simbolo dei ribassi, una volta uscito dal letargo, torna a frequentare le Borse. I titoli di Stato, a partire dai Btp, prendono la strada del rialzo. Non è un bel segnale per lo Stato Italiano, grande debitore. Ma a nostro favore gioca la ripresa economica. Per questo è vitale che il protezionismo, rafforzato dai muri contro la libera circolazione di merci e persone, non comprometta le sorti del commercio internazionale. C’è un fil rouge che collega l’azione di Janet Yellen e di Mario Draghi con la preoccupazione di tutelare la ripresa, faticosamente emersa dai pericoli appena superati.