La notte seguita alla conferenza stampa di Mario Draghi non ha portato consiglio. Anzi. Di buon mattino, nel suo punto economico, l’agenzia Bloomberg non aveva dubbi: «Il rally dell’euro potrebbe essere solo cominciato». La divisa europea alle 10 di ieri mattina scambiava a quota 1,1642 sul dollaro, dopo aver toccato quota 1,1677, ai massimi da due anni. Come ci mostra il grafico, l’euro è la moneta che si è apprezzata di più contro il biglietto verde in un paniere di 10 valute, salendo dell’11% quest’anno e si sta avvicinando anche ai massimi da otto mesi sulla sterlina, scambiando a 89,59 pence. Per Peter Kinsella, senior strategist alla sede londinese della Commonwealth Bank of Australia, «quello dell’euro è un rally corazzato e non si fermerà. Tutto parla a favore di un suo apprezzamento, incremento negli inflows di portafoglio, cambi della politica monetaria e aumento dei rischi politici». In effetti, il trend c’è tutto. E, paradossalmente, in un momento completamente errato: con la vittoria di Emmanuel Macron a placare i timori per i populismi e la Bce in attività espansiva, perché l’euro dovrebbe apprezzarsi su un dollaro che vede la propria Banca centrale di riferimento impegnata invece in una politica di normalizzazione monetaria e di aumento dei tassi?
Per il motivo che ha citato Kinsella e che vi ho spiegato l’altro giorno: l’aumento del rischio politico. Negli Usa, però. E, attenzione, perché il modo con cui Draghi giovedì ha liquidato l’argomento, ci fa capire che a Francoforte i timori cominciano a crescere: «Il recente re-pricing della moneta unica ha ottenuto una qualche attenzione», ha detto il capo dell’Eurotower, senza ovviamente specificare quanto sia realmente preoccupato per questo rafforzamento, a fronte di previsioni inflazionistiche in calo per l’eurozona che dovrebbero essere driver per una svalutazione. Per Jordan Rochester, strategist dei cambi a Nomura International, «la Fed si sta muovendo in maniera più aggressiva in termini di politica monetaria, mentre le altre Banche centrali stanno ancora operando in maniera espansiva. Bene, ora potrebbe andare tutto in reverse».
Qual è il nodo della questione? C’è sufficiente consenso tra gli analisti che l’unico modo per bloccare un prolungato apprezzamento dell’euro sia una serie di eventi che emergano dall’altra parte dell’Atlantico: una qualche forma di progresso nel dialogo sulla riforma fiscale, ad esempio. Ancora Rochester: «Uno dei fattori chiave per bloccare la corsa della moneta unica è un re-pricing delle aspettative legate alle Fed, visto che c’è così poco di prezzato da lasciare spazio a un qualsiasi tipo di sorpresa al rialzo nei dati, tale che possa operare questo reverse». Insomma, peggio di come siamo messi, c’è poco. Abbiamo una Banca centrale con uno stato patrimoniale pari al Pil del Giappone che sta operando acquisti da 60 miliardi al mese, debito corporate compreso, la quale non solo vede le aspettative inflazionistiche in continuo calo nonostante gli acquisti, ma, ora, si trova a dover affrontare un inatteso e brusco apprezzamento della moneta unica con le mani legate.
Lo stop all’euro può darlo solo l’America, la quale non essendo pazza e volendo sfruttare l’export finché possibile, farà invece di tutto per far proseguire la traiettoria svalutativa del dollaro, non fornendo alcun alibi alla Bce. Ecco spiegato l’atteggiamento da ultra-colomba tenuto giovedì da Draghi, il quale ha detto chiaro e tondo che degli scenari di tapering non si è nemmeno parlato durante il board: il tutto, mentre il consensus degli economisti vede l’annuncio della tempistica proprio del tapering in arrivo tra settembre e ottobre. Ve lo dicevo che, prima o poi, la situazione sarebbe andata fuori controllo: ci siamo in pieno. E cosa significherebbe un euro strutturalmente forte sui mercati per le aziende europee, soprattutto le nostre Pmi, in un momento come questo, potete capirlo tranquillamente da soli.
Speranze a breve? Nessuna. Anzi, il dubbio che in America sia in atto una strategia auto-destabilizzante per aumentare la percezione di rischio politico sui mercati, sta tramutandosi in certezza. A confermarlo, notizie delle ultime ore. Alcuni degli avvocati che assistono il presidente Donald Trump, infatti, starebbero esplorando modi per limitare o minare l’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller sul cosiddetto Russiagate, nel tentativo di montare il caso su quanto presumono costituisca conflitto di interesse. Lo scrive il Washington Post citando fonti informate, a detta delle quali inoltre i legali di Trump stanno esaminando i termini della facoltà del presidente di concedere amnistia. Sarebbe stato proprio Donald Trump a chiedere espressamente se ci fosse l’opportunità di applicare l’amnistia agli assistenti, ai membri della sua famiglia e persino a se stesso. Ma non basta, un’altra notizia sembrerebbe anticipare l’arrivo a breve del tornado: uno degli avvocati, Mark Kasowitz e il suo portavoce, Mark Corallo, si sono dimessi dal team legale. Non sono noti i motivi dell’abbandono, ma i media americani ipotizzano sia dovuto a un disaccordo di Kasowitz proprio riguardo la decisione di Trump di screditare il team dei procuratori. Ma non basta. Per la prossima settimana (il 24 e 26 luglio), sono infatti attese le audizioni presso la Commissione intelligence del Senato di Jared Kushner, genero di Trump, del figlio Donald Jr. e dell’ex capo dello staff elettorale, Paul Manafort, in relazione al famoso incontro avvenuto nel giugno dello scorso anno alla Trump Tower con la misteriosa avvocatessa russa che avrebbe promesso notizie imbarazzanti riguardo Hillary Clinton, proprio mentre il New York Times spara la notizia che lo stesso Manafort avrebbe avuto debiti per 17 milioni di dollari con un oligarca russo.
Vero? Falso? Non importa la verità, importa l’effetto che fa: paradossalmente, più sul dollaro che sulla tenuta politica della Casa Bianca. Infine, il procuratore speciale che indaga sul Russiagate, Robert Mueller, avrebbe puntato i fari sulle transazioni finanziarie del presidente Donald Trump. Lo rivelano i media Usa, proprio all’indomani dell’avvertimento del presidente a Mueller, affinché «non superi la linea rossa», passando al setaccio i suoi affari. Stando a quanto sostiene Bloomberg, Mueller starebbe indagando, in particolare, su acquisti in proprietà di Trump da parte di russi, sul concorso di Miss Universo a Mosca nel 2013, su uno sviluppo immobiliare a Soho con partner di Mosca e sulla vendita, nel 2008, di una villa del miliardario in Florida a oligarchi russi. «Queste transazioni a mio avviso vanno oltre il mandato dello speciale procuratore», ha ammonito l’avvocato di Trump, John Dowd, in una nota inviata a Bloomberg.
Nel mirino di Mueller, stando al New York Times, vi sono anche i legami tra Trump e la Deutsche Bank, la quale gli avrebbe prestato milioni di dollari, a fronte di scarsissime garanzie. Tra i misteri che circondano le sue finanze, oltre a potenziali conflitti d’interesse che potrebbero emergere dalla dichiarazione dei redditi, c’é proprio la questione dei debiti. Ciò che interessa a Mueller non è tanto l’ammontare, quanto piuttosto con chi sia indebitato. Anche le Commissioni congressuali che indagano sul Russiagate hanno chiesto informazioni alla banca tedesca che, fino a questo momento, si è rifiutata di fornirle. Per il Guardian, Mueller avrebbe già avviato contatti informali con Deutsche Bank e potrebbe a breve emettere un mandato per obbligarla a fornire documenti e informazioni.
Insomma, se è l’instabilità politica Usa il driver al rialzo dell’euro, c’è poco da stare allegri nel breve. E, per quanto il traguardo sia ancora lontano, se verrà rotta la soglia psicologica di 1,20 durante l’estate, il discorso di Mario Draghi a Jackson Hole diventerà fondamentale non tanto per capire quale sarà il destino del Qe, ma dell’intera tenuta dell’eurozona, a fronte di tensioni finanziarie, politiche e geopolitiche esterne sempre più forti. Sarà per questo che la Germania, patria di 5 milioni di turchi, da due giorni ha dato vita a una guerra diplomatica senza quartiere contro Ankara? Ad auto-destabilizzazione si risponde con la stessa moneta? Se così fosse, vorrebbe dire che in Germania sono letteralmente terrorizzati per l’euro forte, visto che a fine settembre ci sono le elezioni politiche.
«La Turchia fa arresti arbitrari e non rispetta gli standard minimi consolari. Questo mi ricorda quello che accadeva prima nella Ddr», ha affermato ieri, intervistato dalla Bild, nientemeno che il plenipotenziario della Merkel, Wolfgang Schaeuble. Il tutto, dopo che il giorno precedente, il ministro degli Esteri, Sigmar Gabriel, aveva annunciato una svolta nelle politica su Ankara, con il rafforzamento degli avvisi per chi viaggia nel Paese, una revisione degli accordi commerciali e persino una discussione con i partner europei sui fondi promessi dall’Unione europea nell’attuale fase di pre-adesione della Turchia: si tratta di quasi 4,5 miliardi che Ankara dovrebbe ricevere entro il 2020. Parlando con la stampa, Gabriel ha detto che la Germania «si aspetta un ripristino dei valori europei in Turchia». O, forse, soltanto un calo dell’euro. Altrimenti, addio export.