Con una nota scarna, a mercato chiuso, Telecom Italia, anzi Tim, ha comunicato che lunedì “verrà esaminata la proposta di definizione consensuale dei rapporti tra la società e Cattaneo”; si verifica puntualmente il copione di cui i giornali davano conto da almeno dieci giorni. Ricapitolando: l’ad dell’ex monopolista pubblico delle telecomunicazioni, che ha fatto bene secondo il mercato e con i risultati, viene coinvolto per giorni da rumour di dimissioni, poi puntualmente verificati senza ragioni apparenti. Le ricostruzioni dei giornali, che ieri sono state provate, suggeriscono che questo passaggio sia frutto esclusivo di una decisione di un azionista straniero di maggioranza relativa, Vivendi, che non ha mai neanche dovuto lanciare un’opa sul titolo. Una decisione che deriverebbe da una riorganizzazione interna di Vivendi che ha come danno collaterale il cambio di ad del nostro primo operatore telecom, diventato una sorta di marca di confine che si concede per premiare qualcuno. Il premio di controllo normalmente, nei mercati del primo mondo, almeno si paga; in questo caso nemmeno questo. Il mercato che spesso viene citato a sproposito per giustificare vere e proprie operazioni di colonizzazione fatte da sistemi esteri sul nostro in questo caso non c’entra assolutamente nulla. Non ci sono né risultati brutti, né scontri in assemblea. Tutto avviene a prescindere dal mercato.



È singolare che tutto questo avvenga mentre la Francia chiede e ottiene che Fincantieri riveda accordi già firmati su Stx per l’unica ragione che “il sistema francese” non avrebbe più la maggioranza assoluta in un’operazione da poche decine di milioni di euro per una società che non è nemmeno particolarmente redditizia. In questi stessi giorni si rincorrono rumour di contro opa su Abertis, con la benedizione del governo spagnolo, per impedire che l’offerta di Atlantia abbia successo. Il governo italiano invece per giorni rimane silente su una vicenda che sarebbe inconcepibile in molti paesi del Terzo mondo; e non è un’esagerazione. Dopo che il più europeista degli europeisti, Macron, scende in campo e straccia un accordo già firmato per difendere gli interessi industriali del suo Paese a tutti dovrebbe essere chiaro che l’unico soggetto che sbaglia è proprio l’Italia, un Paese che negli ultimi anni ha adottato un approccio folle e suicida che l’ha vista privarsi del “controllo” della prima banca, della prima assicurazione, della prima società telecom e forse della prima società televisiva, oltre a un numero impressionante di aziende chiave: alimentare (Parmalat), energia (Edison), lusso, cemento, ecc. Non ci può essere democrazia effettiva se a un sistema Paese concorrente al nostro, al punto di bombardare la Libia, viene concesso un controllo su telecomunicazioni, risparmio e media. Questo è evidente in tutto il resto del mondo.



Macron sa che per essere sicuro di difendere i lavoratori francesi e assicurarsi investimenti in Francia non si può fidare dei concorrenti italiani. Noi invece ci stupiremo del crollo dell’erogazione dei crediti in nord Italia dopo che un terzo del sistema bancario italiano, le popolari, è diventato una public company e la prima banca italiana ha un ad francese che vende il risparmio degli italiani ad Amundi. Indire elezioni in Italia è diventato ormai una tradizione di cui si è perso il senso come qualche sagra popolare. C’è Miss Italia e poi c’è il primo ministro italiano. Lamentarsi della crisi diventa grottesco dopo anni in cui si scelto di abbandonare qualsiasi velleità di politica industriale, quella per cui servono banche e grandi imprese che investono.



A fronte di questa “generosità”, all’Italia toccano i migranti perché gli altri, in Europa, chiudono le loro frontiere o ce li rimandano indietro, a partire proprio dalla Francia e dal suo leader che per mesi è stato dipinto come il salvatore dell’Europa. Scommettiamo che a valle di tutto questo le uniche parole che sentiremo sono che il governo non si immischia “con il mercato”? Se non ci fosse da piangere ci sarebbe da ridere.