Unicredit e Banco Bpm sono due istituti di credito a proprietà straniera. Ubi e Mediobanca sono pesantemente condizionati da soci dominanti stranieri. La verità sostanzialmente chiara a tutti da tempo, e precisamente da dopo la riforma delle banche popolari voluta da Renzi e mezza abortita, è adesso alla luce del sole, merito di una ricerca della Uilca – il sindacato dei bancari Uil – che ha riclassificato in modo intelligente e rigoroso i dati ufficiali sulle proprietà delle società quotate come risultano alla Consob La Uil sottolinea di essere partita dall’articolo l’art. 120 del Testo Unico della Finanza, che al comma 2 recita: “Coloro che partecipano in un ‘emittente azioni quotate’ avente l’Italia come Stato membro d’origine in misura superiore al tre per cento del capitale ne danno comunicazione alla societa` partecipata e alla Consob”.
Ebbene. Applicando questo criterio di riclassificazione delle proprietà al settore delle banche quotate, risulta che gli azionisti con partecipazioni dichiarate nelle imprese bancarie superiori al 3% sono solo 35, per un valore complessivo dell’investimento ai prezzi di mercato di 26,9 miliardi di euro. Un terzo di questi 35 sono stranieri. È quel che si voleva? Magari! Almeno, se dietro l’effetto ampiamente previsto e preannunciato di quella riforma priva di senso se non di un senso liberticida, ci fosse stato un qualche disegno di politica economica, per sbagliato che fosse, se ne potrebbe riconoscere una logica. In realtà, e nell’attesa che qualche procura indaghi sugli anomali movimenti di alcuni titoli coinvolti che si riscontrarono nella fase immediatamente precedente il varo della riforma, tuttora non si coglie alcuna logica strategica dietro quella fiammata riformista che in pochi mesi pretese, e simulò, di voler cambiare l’Italia lasciando sul campo mezze riforme, aborti o veri e propri disastri.
Tornando ai dati: che Unicredit sia in mano agli stranieri è noto da sempre, e in tal senso è semmai molto bello ed encomiabile che il residuo azionariato italiano della banca, il suo management, e lo stesso (bravissimo) amministratore delegato Mustier difendano se non la sostanza almeno l’apparenza del radicamento italiano storico del gruppo. Che invece le due ex popolari più grandi siano passate nell’orbita gravitazionale di investitori stranieri è una novità che non mancherà di sortire effetti. L’influsso di una governance ispirata da interesse extranazionale si manifesta sempre, sul medio-lungo termine, nella filosofia che ispira l’asset allocation (cioè: le scelte sulla destinazione degli investimenti) che nutrendosi, com’è giusto, anche di discrezionalità (nessuno creda alla fola di algoritmi implacabilmente buoni e giusti nella destinazione dei soldi) finisce sempre col premiare il sistema economico-politico da cui la proprietà viene espressa: più Bund che Btp in portafoglio, ad esempio, perché se rendono meno sono più affidabili; o più soldi a debitori stranieri che italiani, perché più solvibili. Accadrà, sta già accadendo. E il rapporto col territorio si allenta, si diluisce.
Ma va detto, a suo onore, che il Centro Studi Uilca “Orietta Guerra”, che ha realizzato la ricerca, avanza anche alcune altre originali e condivisibili rilevazioni, per bocca del curatore Roberto Telatin: “Se consideriamo che la capitalizzazione complessiva delle banche è di 119,8 miliardi, non possiamo non notare che non si conosce chi sia il proprietario dei 92,9 miliardi di euro del sistema bancario italiano”. “Pochi settori sono così vigilati, o meglio sorvegliati, come quello bancario, eppure non si conoscono i nomi di chi detiene le azioni, salvo quando ci si presenta in assemblea”, dice ancora Telatin. “Nonostante oggi il sistema bancario nazionale ed europeo sia costantemente radiografato per la qualità e quantità degli asset, per le politiche retributive dei manager, per la tipologia delle politiche commerciali e per i limiti nella concessione degli affidamenti”. La verità è che tutto trae origine dalla legge Amato-Ciampi sulle Fondazioni bancarie che, imponendo a quelle istituzioni di ridurre il proprio peso di controllo nelle banche, non si preoccupava di disegnare l’identikit del nuovo, futuro azionariato, affidando la pratica, difeisticamente, ai valori del mercato. Che non ha valori: e che infatti si è incaricato di raccattare a poco prezzo, con gli aumenti di capitale indotti dalla crisi, le azioni che le Fondazioni non avrebbero più potuto, neanche volendo, acquistare, per mancanza di cassa, oltre che di legittimità giuridica.
La Uilca pone alcune domande sacrosante: cosa cambierà per l’Italia, ad esempio in UniCredit, dove i primi tre azionisti sono investitori americani, norvegesi e arabi? Quale ruolo avranno i fondi d’investimento, azionisti di banche solo perchè vendono i loro prodotti? Come si comporterà un management scelto da investitori che escono 20 giorni dopo l’assemblea, perchè hanno trovato altre occasioni d’investimento? “Sono domande nuove per le quali dovremmo dare delle risposte certe in futuro – commenta il segretario generale della Uilca Massimo Masi -, perché il rischio concreto che corriamo è che nelle banche, con piccole percentuali di capitale, si possono attuare scelte che arricchiscono pochi e impoveriscono molti. Speriamo di aprire un dibattito che non parli solo di esuberi, ma che si soffermi sul ruolo delle banche per la fondamentale, ed urgente, ripresa economica del nostro Paese”.
Probabilmente la risposta è nelle domande stesse: impoverire i più a vantaggio dei pochi è esattamente l’obiettivo che la finanza angloamericana ha perseguito negli ultimi dieci anni; e la disintermediazione delle banche dai servizi di pagamento (GooglePay, Amazon Lending) e dallo stesso esercizio del credito prepara in tutto il mondo quel crepuscolo degli istituti che un banchiere istituzionale come Francisco Gonzales – capo del Bbva, un signore di 73 anni! – riassume così: entro il 2033 sopravvivranno 60 banche delle attuali novemila. La torta da spartire per ereditarne il mestiere è golosissima. E si inizia a capire chi la mangerà. E chi ne risentirà.