Non ha riscosso molta attenzione tra i media italiani, la notizia con cui aprivo il mio articolo di ieri: ovvero, le nuove sanzioni bipartisan contro la Russia decise dal Congresso Usa, in un primo momento avversate e poi accettate da Donald Trump. Con ogni probabilità, il cambio di attitudine del presidente è interamente da legarsi al fatto che questa settimana si terranno le audizioni di genero, figlio maggiore ed ex capo della campagna elettorale davanti alla Commissione intelligence del Senato per il caso Russiagate, quindi meglio abbozzare sull’argomento. Chi invece ha ritenuto interessante la notizia è stato il Financial Times, il quale ci ha aperto l’edizione di ieri, rilanciando un’ulteriore preoccupazione in materia: il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha infatti chiesto di discutere con urgenza la possibile risposta di Bruxelles in caso di introduzione di nuove sanzioni degli Stati Uniti contro la Russia. A disposizione del giornale è finito il documento che la Commissione europea prenderà in considerazione nella riunione di domani e contenente diverse opzioni relative alla cooperazione con gli Stati Uniti. 



Juncker avrebbe invitato a valutare immediatamente le possibili risposte di Bruxelles, nel caso il settore energetico e le aziende europee vengano colpite dalle sanzioni in discussione al Congresso americano: nella bozza preparata si afferma che l’Unione europea «dovrebbe essere pronta all’azione nei prossimi giorni». Di più, a detta del Financial Times, Bruxelles intende esigere da Washington «una dichiarazione pubblica o scritta», a detta della quale le nuove sanzioni non toccheranno gli interessi europei, mentre un’altra opzione menzionata nel documento della Commissione europea suggerisce l’opportunità di non riconoscere valide le sanzioni americane nel territorio dell’Ue. Per finire, l’Unione europea non esclude la possibilità di introdurre contromisure conformi alle norme del Wto. Insomma, non proprio una cosina da poco. 



Chissà come mai così poco interesse generale? Forse perché non si vuole ammettere che siamo nel pieno di un risiko globale che vede la politica e i suoi addentellati meno nobili come motori immobili dell’economia: piaccia o non piaccia. A confermarlo, sfidando apertamente il concetto di ridicolo, ci ha pensato sempre ieri il Fmi, il quale ha pubblicato un aggiornamento del suo World Economic Outlook. E come vanno le cose: sale l’Europa, dove «i rischi politici sono diminuiti», ma calano gli Stati Uniti, perché Donald Trump «spinge il Pil meno delle attese». Inoltre, stime in rialzo per l’Italia dove «la ripresa è più forte del previsto», mentre sono in ribasso quelle del Regno Unito alle prese con l’incognita della Brexit. Insomma, se il politicamente corretto può avere una versione economica, eccola a voi. 



Partiamo dall’Europa, anzi proprio dal nostro Paese. Per l’Italia, la revisione al rialzo delle stime è molto marcata: Washington prevede una crescita del nostro Pil a 1,3% nel 2017 ovvero ben 0,5 punti percentuali in più rispetto alle previsioni di aprile, ma con un passo un po’ più lento invece nel 2018, quando l’economia crescerà dell’1,0%, comunque +0,2 punti percentuali rispetto alle stime precedenti. Novità sostanziali intervenute fra aprile a oggi in grado di sostanziare questo upgrade? Nessuna. Il governo non ha preso mezza iniziativa in ambito di creazione di posti di lavoro o abbattimento del debito, il quale – anzi – è continuato a salire per esigenze di cassa. Gli ultimi dati, poi, parlano di tre nuovi posti di lavoro su quattro legati a contratti a tempo determinato, mentre solo uno si richiama al miracolistisco Jobs Act. Insomma, dove il Fmi abbia trovato elementi per una revisione al rialzo delle nostre stime di crescita non è dato sapersi. Ma è tutta l’area euro è essersi tramutata di colpo nel paradiso degli unicorni, in Fantasilandia, visto che le stime di crescita per il 2017 sono state riviste al rialzo per diversi Paesi, «incluse Francia, Germania, Italia e Spagna, per le quali la crescita nel primo trimestre 2017 è stata sopra le attese». 

Diversa, ovviamente, la prospettiva per la Gran Bretagna, per la quale è stata rivista al ribasso dello 0,3% rispetto ad aprile la stima sul Pil di quest’anno, atteso all’1,7%. Il Fmi spiega come l’attività economica sia stata «più debole del previsto nel primo trimestre». Inoltre, ha osservato il capo economista del Fondo, Maurice Obstfeld, «l’impatto finale del Brexit, ovvero dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, resta incerto». Mentre invece, ad aprile aveva prospettive di epilogo solidissime. Dire che sono ridicoli è dir poco. Ma veniamo ora alla grande sorpresa: la frenata più brusca contenuta nell’outlook è infatti quella degli Stati Uniti. Il Pil Usa è stato rivisto al ribasso dal 2,3% al 2,1% nel 2017 e dal 2,5% al 2,1% nel 2018, perché nel breve termine le politiche di bilancio dell’amministrazione di Donald Trump si profilano meno espansive del previsto: «Anche le attese del mercato sullo stimolo fiscale si sono affievolite, mentre il tasso di sviluppo Usa è comunque ampiamente al di sopra del fiacco risultato del 2016 con un Pil all’1,6%», ha osservato Maurice Obstfeld, capo economista del Fmi. Fissatevi questi punti in testa, perché ne riparleremo a breve. 

A dispetto della deflazione esportata in allegria, della pressoché scomparsa dell’impulso di credito e del mercato obbligazionario in bolla, per il Fmi chi cresce più del previsto è l’economia cinese: +6,7% nel 2017 e +6,4% nel 2018, rispettivamente 0,1 e 0,2 punti percentuali in più rispetto alle previsioni di aprile. Nell’aggiornamento del World Economic Outlook, il Fmi mantiene invece invariata la stima di crescita per la Russia a 1,4% sia per quest’anno sia per il prossimo. Per il resto dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), il Fondo lima al rialzo di 0,1 punti percentuali la crescita brasiliana per il 2017 a 0,3%, tagliando pero di 0,4 punti quella per il 2018 a 1,3%. Invariate le stime per l’India a +7,2% quest’anno e +7,7% il prossimo. Per il Sud Africa, la crescita per il 2017 è rivista al rialzo di 0,2 punti percentuali a 1,0%, mentre per il 2018 è taglia di 0,4 punti all’1,2%. In generale, sottolinea il Fmi confermando le stime di aprile sull’aumento del Pil globale al 3,5% quest’anno e al 3,6% il prossimo, la ripresa dell’economia mondiale «resta sulla buona strada e non c’è alcun dubbio che stia guadagnando slancio», ma permangono rischi al ribasso nel medio termine. Andare avanti con le riforme, ed evitare politiche che possano alimentare il protezionismo, rimane la ricetta del Fmi a livello mondiale. 

Dunque, smontiamo ora questo immane cumulo di idiozie e facciamolo dimostrando, contestualmente, quanto vi dico da giorni e si tradurrà nella vera guerra di sopravvvivenza del futuro prossimo: la disputa valutaria attraverso le destabilizzazione politica. Dunque, partiamo dall’assunto del Fmi in base al quale l’Europa gode di un periodo di stabilità grazie al calo delle tensioni politiche post-elezioni francesi. Primo, è di venerdì a notizia che la luna di miele fra Emmanuel Macron e la Francia è già bella che terminata, con il titolare dell’Eliseo che ha perso 10 punti percentuali di sostegno in un solo mese, peggio di lui nella storia recente solo Jacques Chirac. Vogliamo parlare dell’Austria, la quale andrà al voto il 15 ottobre e ha visto i due partiti che compongono il governo, popolari e socialdemocratici, porre in essere negli ultimi giorni un patetico teatrino sulla vicenda Brennero-immigrazione, pur di raccattare qualche voto ed evitare la vittoria del Fpo? E la Germania? Strano silenzio quello che la stampa italiana ha fatto calare sull’intervista rilasciata venerdì scorso dal candidato cancelliere socialdemocratico, Martin Schulz, il quale ha parlato di situazione d’emergenza in Italia per quanto riguarda l’immigrazione, paventando addirittura rischi di destabilizzazione per l’Europa. 

Vogliamo parlare della Spagna, con due banche andate a zampe all’aria in un due settimane, un sistema bancario nel suo insieme che grida sotto-capitalizzazione e la doppia minaccia di voto anticipato e strappo della Catalogna? È forse l’ennesima partita di giro sul debito greco appena decisa a far scoppiare di entusiasmo il Fmi, tra l’altro parte in causa, per l’eurozona? Viene da chiederselo, perché proprio ieri mattina l’indice Markit Pmi relativo alla crescita dell’eurozona ha segnato a luglio il tasso più lento da sei mesi a questa parte, il tutto con l’Euro Stoxx 600 che a inizio di contrattazioni segnava un -0,6% a causa dell’ultimo, potenziale scandalo industriale denunciato dal settimanale tedesco Der Spiegel, a detta del quale Bmw, Daimler e Volkswagen avrebbero dato vita a una cartello di cooperazione sulla tecnologia almeno da un decennio. 

E come andava l’euro sul dollaro in apertura di contrattazioni? Forte, ancora forte a livello di 1,1672, al massimo da due anni. Poi, nell’arco di due ore, eccolo ritracciare – sempre forte – a 1,1655, proprio in concomitanza con l’apertura negativa dell’EuroStoxx 600 sulla scorta della notizia dello Spiegel (scontata oggi dai mercati, perché uscita venerdì a Borse europee chiuse). Ma guarda, il principale settimanale tedesco getta un’ombra enorme sul principale complesso industriale del suo Paese, affossando i titoli del comparto e l’intero indice benchmark continentale: amore per la verità all’ennesima potenza? No, necessità di fermare l’avanzata del cross euro/dollaro verso 1,20 a tutti i costi, senza badare all’intensità della campagna da mettere in atto, anche fosse autolesionista a livello interno sul breve termine. Il tutto, in attesa dei pronunciamenti della Fed di metà settimana e con la netta stroncatura della crescita Usa da parte dell’americano Fmi, certamente non uno stimolo al rialzo per il dollaro. La guerra è tutta lì, è tutta politica. E senza esclusione d colpi.