Parlare dell’italianità di Telecom Italia – pardon, Tim – è come parlare della verginità di Cicciolina. Passato remoto. Il “caso Cattaneo” ha il merito di aver risvegliato bruscamente una parte del nostro establishment che faceva il finto tonto. Peccato che tra questi finti tonti ci fosse il governo. Ora è chiaro: comandano i francesi, vogliono consolidarsi dentro Telecom, fonderla o comunque vincolarla profondamente alle loro tv a pagamento – insidiando così sia la Rai sia Mediaset, della quale peraltro sono soci di interdizione, e potranno prevedibilmente riuscirci nell’impotenza delle istituzioni italiane – e dunque facendo business nel loro esclusivo interesse, come del resto è logico.



Guai ai vinti. E qualunque pifferaio filogovernativo osasse dire che adesso l’Italia mostrerà i muscoli ai parigini si vada per favore prima a guardare cosa sta succedendo in questi stessi giorni alla Fincantieri, che aveva praticamente firmato l’acquisizione dei cantieri di Saint Lazaire in Francia (ma già non più francesi: il cedente è l’ex azionista di controllo coreano, un gruppo in fallimento) e si vede adesso sbarrare il passo dal “niet” della neonata amministrazione Macron. Piaccia o no – anzi, francamente non può piacere – la Francia è una nazione, con un potere statale assertivo ai limiti dell’aggressività, la nostra no. 



Spudoratamente questi Einstein del nostro ministero dell’Economia fino a ieri si appigliavano – nei goffi ragionamenti su Telecom che hanno preceduto lo show-down del licenziamento profumatamente indennizzato di Flavio Cattaneo – al fatto che nell’assemblea dei soci in cui la francese Vivendi ha prevalso, con il suo 23,9% del capitale, insediando al vertice del gruppo una netta maggioranza di consiglieri di propria fedeltà, una percentuale di poco inferiore del capitale abbia votato contro la lista “di maggioranza”. Peccato che in democrazia è il 50,1% che comanda sul 49,9%.



Certo, ai fondi d’investimento internazionali la linea machista di Vincent Bollorè, l’avventuriero bretone che comanda a Vivendi, non piace e non piacerà mai del tutto, perché il miliardario amico di Sarkozy è poco avvezzo ai salamelecchi della pseudo democrazia societaria di stampo gesuitico-anglosassone. Ma se avessero vinto loro, Telecom Italia comunque sarebbe rimasta sotto il controllo prevalente del capitale straniero, perché prevalentemente stranieri sono i fondi. Che a logiche internazionali rispondono, vogliono solo staccare cedole e guadagnare in capitalizzazione e se ne strasbattono degli investimenti, dell’occupazione e del sistema-paese.

Ma si sa: in Italia non conta chi comanda, è più importante “chi non comanda”, proprio come adesso nel quadro politico nazionale. Il guaio è quando qualcuno si afferma, e allora ecco tutti gli altri in gramaglie. Non si può più millantare che la situazione di Telecom Italia sia “sotto controllo” degli interessi nazionali. Non si può continuare con la vomitevole liturgia delle disquisizioni giuridiche sul concetto di controllo, talmente astrusa da tradursi in un’offesa al buon senso: tutti lì, con fior di lauree, a discettare se il 23,9% sia “controllo” o “posizione rilevante”, e del resto qualcuno in Italia ha avuto recentemente la faccia come il lato B di affermare che Mediobanca non controlla le Generali…

La verità è che da D’Alema a Prodi a Berlusconi a Monti a Letta e a Renzi sono tutti iper-responsabili dell’emigrazione intellettuale (e proprietaria) in Francia di Telecom Italia. Dapprima furono Prodi e Baffino, privatizzandola come se fosse uno stupro finanziario e affidandone le sorti a un ridicolo “nocciolino” di controllo, dove l’irrisorio baluardo dello 0,7% era affidato all’Ifil degli Agnelli, riluttanti nel ruolo di cani da pastore di un gregge al quale non erano per niente affezionati. Di fronte all’evidenza di una Telecom affidata a se stessa, i dalemiani, veri mandanti morali di quello scempio, dapprima vagheggiarono non senza lucidità – con Bersani e la Morgan Stanley – una fusione Telecom-Fininvest, che vent’anni fa precorreva i tempi della convergenza tra reti e contenuti che è esattamente al centro della strategia di Vivendi; ma poi, nell’evidente impossibilità di attuarla perché Berlusconi non voleva, diedero il via libera, politicamente molto interessato, alla scalata dei cosiddetti “capitani coraggiosi”, guidati da Colaninno ma integrati dal berlusconiano Gnutti, che di fatto impiombarono con centomila miliardi di vecchie lire di debito la povera Telecom, destinandola a una vita finanziaria di stenti che tuttora continua, visto che quei debiti dopo diciassette anni sono ancora 28 miliardi. 

La dalemizzazione di Telecom avrebbe dovuto essere bilanciata dalla berlusconizzazione del Corriere della Sera, ma questa seconda parte dell’operazione fallì… Tipica inefficienza del centrodestra italiano. Quando nel 2001 Telecom passò alla Pirelli di Tronchetti Provera, reo di non essere prodiano e di non essere nemmeno berlusconiano, i tentativi tenaci dell’imprenditore di rilanciarla cominciarono a essere sempre più duramente avversati dal potere politico, che giunse al punto da ipotizzare lo scorporo forzoso della rete d’accesso – lo stesso di cui poi il Palazzo ha vanamente discusso fino a un anno fa – pur di contrastare la Pirelli che alla fine, colpita da una congiuntura giudiziaria inconsistente, cui le sentenze hanno sostanzialmente dato archiviazione, dovette cedere.

E fu allora che iniziò la fase più cupa della vita recente di Telecom, quella della sinecura di Mediobanca, che portò a bordo del gruppo, in un ruolo di socio industriale di riferimento, il colosso spagnolo Telefonica: fu veramente come affidare le pecore al lupo, vista la posizione di concorrenza totale e quindi di assoluto conflitto d’interesse del gruppo iberico verso la partecipata italiana, che mirarono soltanto a tenere depressa. E proprio per questa incuria, per questa indifferenza alle sorti di Telecom, gli spagnoli ne usarono due anni fa il capitale rimasto in loro possesso per pagare in natura un’acquisizione che fecero da Vivendi, la quale si ritrovò per caso azionista di Telecom con l’8%. L’occasione, si sa, stimola i desideri, e Bollorè ha pian piano trasformato quell’8% in una posizione di controllo.

E adesso? Adesso il francese, che – ricordiamocelo – trae il grosso dei suoi proventi a livello mondiale dalla gestione dei porti del Nord Africa, mestiere antigienico come pochi, che richiede lunghe trecce di pelo sullo stomaco, non esiterà a imporre la sua legge su Telecom. Certo non contrastato in modo significativo da Giuseppe Recchi, che resta l’unico italiano nel vertice, non per scelta convinta della proprietà, ma solo perché una legge lo prescrive, un italiano che peraltro non ha mai lavorato per una proprietà connazionale…

Si parla a questo punto di grandi manovre: chi ipotizza una legge che espropri Telecom della rete, chi di un’Opa che un gruppo pubblico potrebbe lanciare sull’azienda, ma sono tutte sciocchezze. La capacità politico-decisionale del governo in carica al riguardo è pari a zero, l’esito delle imminenti elezioni politiche e assolutamente incerto…I francesi faranno né più, né meno quel che vorranno fare. Che sarà poi appunto la famosa convergenza contenuti-rete, con buona pace di Rai e Mediaset: e forse, chissà, non per il male dell’azienda Telecom. La quale però esce assai malconcia dalla luminosa parabola della meteora-Cattaneo. Già: perché mentre il Paese s’accapiglia sulla liceità del maxi-bonus di 25 milioni di euro intascato dal manager, pochi riflettono sulle due implicazioni di questa cifra-monstre e dalla modalità fulminea con cui è stata erogata. 

La prima: qualunque straordinaria opera gestionale abbia potuto e saputo compiere Cattaneo nei suoi diciotto mesi scarsi in Telecom Italia – e i numeri oggi gli danno ragione – essa sortirà sul medio-lungo termine effetti di cui non sarà più lui a doversi occupare. Questa è un’anomalia illogica. È il trionfo dello “short-termism”, la tendenza tutta angloamericana di lavorare a breve e brevissimo termine, senza rispondere del futuro, che dovrebbe essere proibita dalla legge.

E poi: se l’intervento di un uomo solo ha potuto essere così incisivo sulla gestione di un’azienda con 50 mila dipendenti e migliaia di dirigenti, tutti questi ultimi che ci stanno a fare? Sicuro che tanti anni di cattiva gestione da parte di deplorevoli proprietà non abbiano talmente mortificato e vilipeso la qualità del lavoro interno da deprimere le competenze che pure ci sono e le qualità che pure meriterebbero di emergere? Ma appunto quella di Telecom è tutta una storia di depressione e svilimento perpetrato dallo Stato italiano ai danni di Telecom, ridotta a terra di conquista da colosso internazionale all’avanguardia tecnologica che era ai tempi della proprietà pubblica. Nessuna nostalgia dell’Iri, per carità, ma dissenso totale per questo modo barbarico di privatizzare prima e vigilare poi sulle società concessionarie pubbliche.