Martedì, alla fine, il Tesoro greco ha piazzato i suoi 3 miliardi di bond a 5 anni, garantendo un titolo alle redazioni economiche di tutta Europa, ma, al netto dei trionfalismi, l’asta ha visto solamente una domanda doppia dell’offerta, tanto che da Atene si sono premurati subito di far sapere che ci saranno altre due aste per potersi accaparrare quell’irresistibile carta igienica. Il tutto senza scordare che lo stesso ammontare e il medesimo rendimento (4,6%) era stato offerto anche all’asta del 2014, sempre di titoli a 5 anni: l’anno dopo, soltanto il terzo salvataggio di Atene evitò che andassero in default. Insomma, parliamoci chiaro e utilizzando una terminologia vaccinale che va tanto di moda in Italia in questo periodo: la Grecia resta in piedi solo per l’immunità di gregge offertagli dal Qe della Bce, il quale, pur non acquistando titoli ellenici, ha talmente schiantato gli spread da offrire copertura anche ad Atene, nel quadro di un’Europa talmente fragile da non poter permettersi attacchi nemmeno verso il suo partner più debole. 



Ed entriamo un attimino in ottica Bce, partendo dai numeri veri. Questo grafico, già pubblicato ieri, vale la pena di essere riproposto, perché è la chiave di tutto: Draghi sta mantenendo in vita e solvibili le principali aziende europee attraverso il programma di acquisto di bond corporate, per questo i dati macro Pmi e Ifo continuano a parlare di eurozona in ripresa sempre più sostenuta e sostenibile. Quindi, occorre andare avanti, al netto del fatto che dobbiamo fare i conti con le mosse statunitensi – politiche e della Fed – per mantenere basse le quotazioni del dollaro in chiave di export. 



Quale potrà essere la chiave per evitare la tagliola della fine del Qe? Intervenire sui criteri di eligibilità, cosa che penso Mario Draghi stia già facendo simulare. Perché ne sono così convinto? Perché, al netto delle critiche da maestrina della Bundesbank, chi le simulazioni le ha già fatte è Deutsche Bank e questi due grafici ci mostrano le conclusioni cui si è giunti. Utilizzando i dati della Bce, possiamo infatti stimare lo stock di assets eligibili all’acquisto (tenendo presenti le necessità di re-investimento) rimasto a disposizione e l’impatto delle emissioni lorde sull’universo di collaterale. Deutsche Bank è partita dall’assunto che il 70% degli acquisti tedeschi Pspp sia in bond sovrani, con il rimanente 30% in bond regionali e di agenzie locali. A questo punto, l’istituto ha stimato che l’universo di bond rimasti eligibili all’acquisto sia di 114 miliardi di controvalore: assumendo come dato reale le emissioni lorde per il resto del 2017 e il 2018 a, rispettivamente, 69 e 150 miliardi, di fatto 220 miliardi di totale, lo stock di eligibilità è aumentato del 33% di questo ammontare, ovvero 73 miliardi di euro. A conti fatti, il totale alla fine del 2018 sarà di circa 185 miliardi di euro. 



Al livello attuale di intervento in seno al Qe, gli acquisti di Bund fino a fine anno dovrebbero ammontare a circa 50 miliardi di euro: avanti di questo passo, entro la fine del 2018, la Bce non avrà più titoli tedeschi da comprare. Ed ecco perché il tanto temuto, sulla carta, tapering degli acquisti, potrebbe invece rivelarsi la salvezza, come ci mostra il secondo grafico: se dal gennaio 2018, l’ammontare totale degli acquisti mensili in seno al Qe scendesse ancora, da 60 a 40 miliardi, gli acquisti totali della Bce di debito tedesco ammonterebbero a circa 67 miliardi di euro. Inoltre, stimando le necessità di re-investimento fino alla fine del 2018 in circa 40 miliardi di euro, ecco che il totale degli acquisti arriverebbe a 157 miliardi di euro, comodamente entro la cifra stimata dell’universo di eligibilità, ovvero 185 miliardi: certo, dal 2019 in poi lo stock di collaterale acquistabile sarebbe esaurito, ma, quantomeno, il 2018 sarà “scudato” da tensioni e speculazione, almeno fino a dopo l’estate. 

Sommando i calcoli di Deutsche Bank, se la Bce ridurrà da 60 a 40 miliari di euro l’ammontare di acquisti mensili a partire da gennaio 2018, avrà Bund garantiti per l’acquisto fino all’inizio del 2019, mentre se continuerà con il ritmo attuale di 60 miliardi al mese, entro fine ottobre o inizio dicembre, non ci sarà più carta di Berlino da acquistare. Si potrebbe arrivare all’extrema ratio di un tapering in tre step, ovvero scendere da 40 a 20 miliardi di euro di acquisti al mese, ma, anche in questo caso, non si andrebbe oltre marzo-aprile 2019 a livello di Bund disponibili. Comunque sia, salvo disgrazie che scaraventino i mercati nel panico, la Bce ha ancora spazio per tracheggiare: limitato, come mostrano i calcoli di Deutsche Bank ma sufficiente per svegliare l’Europa dormiente e i suoi governi, mostrando cifre alla man quanto sia vicino il dirupo e mettendo in campo misure straordinarie. 

Certo, nella mente a volte luciferina di Draghi, potrebbe farsi spazio un’altra alternativa. Anzi, due. Primo, imporre alla Germania una traiettoria di deficit di budget molto ampia, con la Bce felicissima di finanziarlo, ovviamente. Secondo, da qui a fine anno, sfruttando anche la grancassa mediatica scomodata dall’asta di mercoledì, includere i bond greci nella platea degli assets eligibili all’acquisto nel programma di Qe, magari facendo arrabbiare un po’ la Bundesbank, ma con due lati positivi. Monetizzare debito ellenico come non ci fosse un domani, sgravando Atene da incombenze continue e placando gli animi sulla questione haircut che vede divisi Fmi e Germania e, soprattutto, garantire a Berlino un passaggio di consegne non traumatico alla guida dell’Eurotower, quando Mario Draghi verrà a fare il premier in Italia e Jens Weidmann prenderà il timone della Bce a Francoforte. Ci sarà un’unica condizione che Berlino chiederà a Draghi: nessuna ufficialità prima del voto politico tedesco del 24 settembre. 

È l’unico modo per uscirne vivi, ovviamente non avendo la certezza che questa road map funzioni e che la Grecia sopravviva a un altro shock esterno. Il quale, ovviamente, risponde al nome di Fed e di normalizzazione del costo del denaro negli Usa. Eh già, lo so, sembro un disco rotto, ma vi assicuro che il cross euro/dollaro è davvero la dinamo di tutto in questo periodo, come ci mostrano questi due grafici, dai quali desumiamo altrettante dinamiche in atto. Primo, stando a dati dell’altro giorno della Cftc Commitment of Traders, i traders stanno pagando il massimo da ottobre 2009 per opzioni di protezione contro un brusco calo del dollaro sull’euro in un periodo di sei mesi: il 10-delta sul rischio di inversione, infatti, ci mostra come in base alle metriche del mercato delle opzioni, l’attesa sia quella di mosse potenzialmente drammatiche dell’euro, in entrambe i sensi. Inoltre, i traders stanno facendo la fila per comprare contratti di opzione che anticipino grandi mosse sul cambio euro/dollaro, focalizzandosi sul livello di resistenza critico di 1,1714 dell’agosto 2015. Stando a dati Bloomberg, i traders hanno comprato più di 6 miliardi di controvalore di opzione di vendita sul dollaro e di acquisto di euro tra il 20 e il 21 luglio scorsi, oltre ad altri 3 miliardi di dollari di opzioni di vendita del dollaro sullo yen. 

Qualcuno teme una “opzione nucleare” della Fed? Oppure qualcos’altro, un qualcosa di così serio e drammatico da spingere Deutsche Bank a fare calcoli per conto di Mario Draghi? Agosto darà risposte.