A brigante, brigante e mezzo. Non è un buon criterio per fare politica, ad adottarlo si finisce a cannonate. Ma la nuova guerra dei Paesi ricchi, intanto che quella cruenta devasta tanti Paesi poveri, è – lo si sa – quella economica. E qui le cannonate le stiamo pendendo noi, noi italiani. Senza saper replicare. Paralizzati. Balbettanti. Ridicoli. Quel che servirebbe sarebbe una ritorsione politica o economica. Una protesta formale, non un comunicato stampa. La convocazione dell’ambasciatore francese in Italia alla Farnesina, un atto politico forte. E qualche severo segnale di forza sul piano degli affari. E invece?



In questa sola settimana due cannonate economiche i francesi le hanno pur sparate, sull’Italia, e fragorose: l’arrocco della proprietà francese di Telecom su un vertice manageriale ormai totalmente teleguidato, in barba al fatto che l’azienda sia concessionaria pubblica e che nel suo azionariato la componente “non-francese” pesi appena lo 0,5% in meno di quella parigina; e ieri, lo schiaffo di Macron in persona che ha sottratto i malconci cantieri navali di Saint Nazaire all’accordo, già fatto da sei mesi col governo Hollande, in virtù del quale sarebbero dovuti passare dalla fallita proprietà coreana alla proprietà del colosso nazionale pubblico Fincantieri, a detta di tutti il miglior gruppo industriale della cantieristica nel mondo. Se a queste due batoste si aggiunge lo schiaffo della trattativa preferenziale e diretta con la Libia impostata da Macron, il quadro è imbarazzante per Roma.



Al di là delle dichiarazioni istituzionali espresse a Roma nel pomeriggio di ieri, è mancata totalmente al governo italiano, che è formalmente padrone della Fincantieri, la capacità di prevenzione diplomatica – in questo caso le intenzioni di Macron erano chiare da un mese – e ancor più manca adesso la capacità di ritorsione. E lasciando gli economisti liberisti all’amatriciana di riempire i giornali di pensose analisi sulla “incomprensibilità” della mossa francese – semmai, è incomprensibile che il governo italiano abbia definito incomprensibile la decisione francese -, la domanda politica vera è appunto questa: come reagire? O meglio: siamo in grado di reagire?



Per carità, il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire ha detto e ripetuto che la “nazionalizzazione” dei cantieri è provvisoria e serve solo a evitare che l’opzione in scadenza ieri sulla maggioranza della società potesse essere esercitata da qualche potenziale acquirente cinese: ha detto che vuole venire in Italia già la settimana prossima per trattare con Fincantieri. Ma per trattare cosa? Solo le modalità, e non la sostanza, delle condizioni dell’imposizione francese all’Italia, che cioè non siano gli italiani a controllare da soli il 51% del capitale dell’azienda, ma che il controllo sia paritetico – 50% e 50% – con azionisti francesi. Ma intanto?

Intanto il fronte della ritorsione sarebbe lì, bello pronto, solo da aprire. La Vivendi di Vincent Bollorè ha il 23,9% di Telecom Italia e dentro vi spadroneggia; ha il 29% della Fininvest ed è nell’angolo, ma in minacciosa posizione di ospite non gradito; eppure senza il consenso delle autorità italiane – da quella delle comunicazioni all’antitrust alla Consob – non può muovere un passo. Trovi il modo, il nostro governo, di chiarire subito che i comportamenti di Bollorè in Italia sono stati a tutt’oggi inaccettabili, e che ogni sua mossa verrà bloccata per via regolatoria. Poi che il bretone si appelli pure alla Corte di Giustizia europea: i tempi di qualunque sentenza sono incompatibili col business, sarebbe il modo giusto per snidarlo.

Saprà mai fare una cosa del genere il governo italiano? Figuriamoci. Non è mai successo, forse solo nella breve epopea della muscolarità craxiana. Giulio Sapelli ha giustamente ricordato che la Francia si è sempre comportata così con l’Italia rievocando il voltafaccia opposto tanti anni fa dal governo di Parigi alla Fiat che era arrivata a un passo dall’acquisizione della Citroen: “È una vicenda che mi ha fatto venire in mente un episodio di fine anni ’60, quando la Fiat tentò di accordarsi con Citroen”, ha detto in un’intervista: “Gianni Agnelli aveva quasi chiuso le trattative, ma poi intervenne il generale Charles de Gaulle a bloccare tutto e a proporre un gruppo paritetico. Mancava poco che accadesse l’esatto contrario, che i francesi arrivassero a comprarsi Fiat”.

E ancora gli Agnelli dovettero rinunciare al “grosso” del business che avevano messo nel mirino all’epoca della tentata scalata di Exor-Perrier. Ma anche Berlusconi – oggi incalzato in casa sua da Bollorè – ha assaggiato in proprio le scorrettezze di cui sono capaci i francesi quando si sentono punti sul vivo all’epoca in cui tentò invano di affermare in Francia il suo network televisivo privato La Cinq, senza riuscirci, unico fiasco imprenditoriale della sua brillante carriera.

I francesi, in particolare, quando hanno voluto – per fortuna non sempre, essendo stati anche, altri casi, dal Credit Agricole con Cariparma alla Bnp Paribas con Bnl al lusso in genere, dei buoni padroni – hanno sempre spadroneggiato. Si pensi ancora alla scorreria di Lactalis su Parmalat, con il travaso di liquidità dal gruppo italiano alla casa madre attuato rasentando ogni sorta di spregiudicatezza…

Guai ai vinti, disse nel 390 avanti Cristo il capo dei Galli senoni (francese!) Brenno: aveva preteso di vendere la pace con Roma, che le sue bande avevano messo sconfitto in battaglia e messo al sacco, facendosi pagare con 1000 libre d’oro. Business, as usual. Poi aveva strafatto, sostenendo che le bilance fossero truccate. Aveva forse poteri divinatori e subodorava le future truffe di Mafia Capitale o dell’Atac? La faccenda finì bene perché il condottiero Furio Camillo ritrovò l’orgoglio della Roma repubblicana e, secondo la leggenda, contrattaccò gettando la sua spada sul piatto della bilancia e replicando: “Non con l’oro, ma col ferro si libera Roma”. Ecco: oggi manca il ferro.

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