La settimana appena trascorsa è terminata con la pubblicazione di due rapporti, prodotti rispettivamente dal Centro Studi Confindustria (Csc) e dall’Assolombarda presentati come molti positivi sull’andamento dell’economia italiana. In breve – i dettagli sono su tutti i maggiori quotidiani -, prefigurano che si sarebbe raggiunta una crescita del Pil dell’1,3% l’anno, prima della fine del 2107, tasso che si sarebbe mantenuto o anche rafforzato nel 2018. Ciò avverrebbe tramite la leva delle esportazioni, specialmente delle medie imprese. Di conseguenza, la politica economica dovrebbe dare particolare attenzione a questa tipologia di aziende, specialmente a quelle ad alta tecnologia.
Due rapidi commenti. In primo luogo, un tasso di sviluppo dell’1,3% l’anno, veniva considerato, prima della crisi iniziata nel 2008, come un tasso di crescita “naturale” per un Paese dalle caratteristiche demografiche e dalla struttura produttiva come quella dell’Italia. Era la conclusione a cui arrivava un gruppo di lavoro composto da Banca mondiale, Banca centrale europea, Commissione europea e Ocse; il gruppo aveva utilizzato la modellistica economica più recente. Non so se sono stati compiuti studi analoghi da quella data. Da allora, l’attenzione si è focalizzata su come uscire dalla crisi e sull’output gap. Le analisi disponibili sull’output gap sembrano considerare, implicitamente, un tasso di crescita dell’1,3% l’anno “naturale” per l’Italia. Se le prospettive del Csc e dell’Assolombarda si verificasse saremmo tornati alla situazione pre-crisi, dopo però avere perso un quarto di Pil negli “anni difficili” 2008-2017. Dobbiamo fare di più e di meglio.
È banale sottolineare che ci vorrebbe una ripresa più rapida perché l’Italia non perda quasi venti anni di reddito nazionale (dieci in cui si è contratto quasi di un quarto e almeno altrettanti per tornare al livello del 2008). Più insidioso è il fatto che i documenti Ccs e Confindustria propongano di fare leva principalmente sulle esportazioni,
In contemporanea con i due documenti Csc e Assolombarda, è stato pubblicato il rapporto Europe: coming together or falling apart? del Centro Europa ricerche (Cer), un istituto privato che ha quasi mezzo secolo di vita ed è stato creato da Giorgio Ruffolo proprio con l’intenzione di esaminare i nostri problemi senza confinarci alle nostre frontiere. Il rapporto Cer non ha quasi avuto eco su quella che si autodefinisce “la grande stampa”. Va, però, letto con attenzione. Pone l’accento infatti sul ritorno del protezionismo. Non solamente l’America First di Donald Trump e la fine delle trattative per un’area atlantica per gli scambi e gli investimenti non promettono bene in termini di “scambi più liberi per un mondo più libero” (lo slogan free trader del Kennedy Round degli anni Sessanta), ma in Francia lo stesso discorso d’insediamento del neo-Presidente Emmanuel Macron profuma di colbertismo. Quindi il neoliberismo internazionale degli anni di Ronald Reagan e Margaret Thatcher sembra finito per sempre, ma una nuova ondata protezionistica è sostenuta politicamente dai sovranismi, dai nazionalismi, dalla xenofobia.
Anche se alle elezioni vincono gli avversari di questi movimenti, concessioni dovranno essere fatte a queste forze per evitare spaccature troppo marcate all’interno sia dei singoli Paesi che dell’intera Unione europea. Le esportazioni Ue sono in gran misura orientate verso i mercati dell’Est – oltre il 9% verso l’Estremo Oriente -, mercati che oggi promettono meno che nel recente passato (anche e soprattutto per ragioni puramente politiche).
L’Italia, dal canto suo, ha mantenuto barriere doganali maggiori di quelle di altri Paesi con il suo livello di sviluppo (in settori come il tessile, il carbone, prodotti petroliferi). Ha una tariffa doganale mediamente del 3,5% rispetto al 2,8% della media Ocse. Tale “protezionismo implicito” rispecchia la scarsa competitività. Ma può essere facile bersaglio in caso di “guerre commerciali”. Quindi, è sulla domanda interna (e sugli investimenti e sui consumi per attivarla) che occorre puntare.