Il fine settimana appena concluso ci ha offerto due certezze: il governo italiano ha un unico ministro degno di questo nome ed è Carlo Calenda. Secondo, il trappolone libico rischia di costarci molto più caro di quanto non sembri. Se infatti domani avremo il redde rationem sul caso Fincantieri-Stx, con la visita a Roma del ministro dell’Industria francese, la querelle sul pattugliamento delle coste libiche rischia di tramutarsi in un pericoloso caso di governo. Sempre domani, infatti, Paolo Gentiloni riferirà alle Camere riguardo l’operatività delle missione italiana in acque libiche, ma già oggi ci troviamo a fare i conti con il mistero delle navi già partite senza autorizzazione del Parlamento: capo di Stato maggiore della Marina e ministero della Difesa hanno smentito decisamente, ma partire sotto questi auspici non è certamente il massimo.



Venerdì scorso, però, nel silenzio totale qualcuno ha parlato di Libia, petrolio e rapporti con la Francia e lo ha fatto in maniera molto netta, inviando un segnale chiarissimo. È stato Paolo Scaroni, ex ad di Enel ed Eni e oggi deputy chiarman di Rothschild (di fatto, il tutore politico di Macron), intervistato da QN-Quotidiano Nazionale: «Ho visto decine di cambi di regime in Africa, ma i contratti petroliferi non sono mai stati toccati. Quello che farà Macron è totalmente irrilevante da questo punto di vista. Non ne farei un fatto petrolifero, ma politico, di influenza. La Francia, non dimentichiamocelo, ha la bomba atomica, il diritto di veto all’Onu e una sua politica estera e militare ben definita che prescinde dai governi. Non mi sorprende che Macron voglia giocare un ruolo nel futuro della Libia, da neo presidente ha voluto mostrare ai francesi che è attivo su questo fronte. Che poi riesca, con questo incontro un po’ frettoloso all’Eliseo tra Sarraj e Haftar, a risolvere il problema della Libia ho qualche dubbio. È stato comunque un tentativo di mettere insieme i due grandi attori della vicenda libica, cosa che noi italiani non abbiamo mai fatto».



E poi, l’Italia: «Il bello di Macron è che è un europeista convinto e questa è una garanzia anche per l’Italia… Un Paese può giocare un ruolo nel mondo solo sui temi di politica estera c’è unità nazionale, cosa che avviene in Francia, Germania, Inghilterra e buona parte del mondo. In Italia, invece, la politica da un po’ di tempo è così divisa su tutto che è difficile avere un peso nel mondo. Ogni sconfitta del governo sul terreno internazionale viene usato dall’opposizione come una vittoria. I problemi li abbiamo in casa». Parola di un uomo che ha vissuto dall’interno le dinamiche dei veri poteri forti e lo ha fatto egregiamente, da manager e da grand commis quale è stato. Il nodo, infatti, è paradossalmente interno. Perché al netto dei posizionamenti strategici, Sinistra Italiana si è già sfilata dal sostegno al governo sulla missione libica, così come Fratelli d’Italia, ovviamente per ragioni opposte: per la prima si tratta di un’avventura bellicista a fronte di un’emergenza umanitaria, per i secondi non è confacente al concetto di blocco navale che ritengono necessario. Certo, parliamo di ali estreme, mentre il corpaccione parlamentare pare deciso a sostenere il governo, ma resta un’incognita: mentre noi ci spacchiamo e partiamo in ordine sparso verso una missione con molte incognite, cosa si sta tramando nell’ombra?



Un’ipotesi l’ha avanzato il quotidiano tedesco Handelsblatt, a detta del quale Merkel e Macron sarebbero già al lavoro per un nocciolo duro nell’Eurozona. In maniera duplice. Da un lato, i due leader e i rispettivi ministri delle finanze sono alla ricerca di opzioni concrete per rafforzare l’unione monetaria, dal bilancio unico europeo all’espansione del fondo di salvataggio Esm, fino alla costituzione di un Fondo monetario europeo. Dall’altro, una riscrizione non solo del Trattato di Dublino, ma addirittura delle regole di Schengen, un qualcosa che gli osservatori più attenti vedono come un palese tentativo di isolare l’Italia nella questione migranti: come dire, mentre noi ci preoccupiamo del contrasto in mare, altrove si fa in modo che il tappo di bottiglia in cui ci siamo ritrovati diventi condizione naturale e costante, a tutto beneficio degli Stati del Nord.

E proprio quanto accaduto nel fine settimana dovrebbe offrirci una conferma indiretta. Non vi pare strano che, nel momento in cui l’Europa sembra obbligata finalmente a fare i conti con un processo mal gestito e sfuggitogli di mano, in Germania – Paese egemone e principale recettore di immigrazione – saltino fuori due casi di lupi solitari, l’uno a breve distanza dall’altro? Ad Amburgo, addirittura, chi ha seminato il panico nel supermercato era un rifugiato cui era stato negato il visto e che viveva da clandestino nel Paese, contando su contatti con ambienti salafiti. Il killer della discoteca di Costanza, invece, era un iracheno. Uomini accolti dall’Occidente in maniera diversa, ma che hanno risposto a questa accoglienza allo stesso modo: con la violenza. E non quella grandemente mediatica dell’Isis, non con l’attentato pianificato – sia esso un assalto armato, una bomba a o un tir sulla folla – bensì con quanto più inquieta la gente: il gesto del singolo che non necessita di alcuna pianificazione, né logistica e che può avvenire ovunque.

Cosa ne ricaviamo? Primo, una seconda figuraccia dei servizi di sicurezza di Amburgo dopo il G20, visto che l’assalitore era noto per frequentazioni estremistiche. Secondo, la possibilità per il governo Merkel di operare una svolta a 180 gradi sul tema senza patire il contraccolpo politico dell’incoerenza, visto che in patria ha non poco inquietato il partito di governo la sortita sull’immigrazione del candidato socialista, Martin Schulz, non a caso giovedì scorso ospite da Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi. Tutto, per ora, è cristallizzato fino al 24 settembre, data del voto politico in Germania: dopo, le danze potranno avere inizio. Ma, statene certi, le prove generali del balletto europeo sono già in atto. E l’Italia, purtroppo, non solo pare non accorgersene, distratta com’è dalla questione libica, ma, soprattutto, rischia di arrivare come al solito alla battaglia in ordine sparso, stile armata Brancaleone.

La tenuta del Paese, a questo punto, non sta tanto nella capacità di non liquefarsi di fronte alla missione militare, quanto nel dimostrare determinazione sul fronte dello scontro economico con Parigi. In ballo, infatti, non c’è solo la cantieristica, c’è la dignità. E qualcosa di più, visto che dopo settimane di silenzio a seguito del duro botta e risposta con Matteo Renzi, sul tema è tornato a parlare Romano Prodi e con toni decisamente ultimativi. «Più osservo le evoluzioni del quadro politico ed economico in cui oggi si trova ad operare l’Italia, più mi viene spontaneo paragonare il suo ruolo a quello della Croce Rossa Internazionale», ha scritto l’ex premier in un editoriale sul Messaggero di ieri, in cui sottolineava che il ruolo «seppur nobile» non è «proprio il compito di uno Stato sovrano che dovrebbe operare in un clima di solidarietà europea».

Ed è sui migranti che Prodi spara più duro: «Vengono raccolti dalle navi appartenenti a tanti Paesi europei ma che, come avviene per i feriti nei conflitti bellici, vengono tutti portati all’ospedale della Croce Rossa, cioè in Italia. E, come è il caso della Croce Rossa, quando si parla delle trattative di pace, l’Italia viene regolarmente esclusa, perché le cose importanti si trattano in un piano superiore». In questo contesto, sottolinea, «ci sacrifichiamo almeno per uno scopo nobile, anche se accompagnato da una vergognosa mancanza di solidarietà da parte dei nostri partner europei». Ma il paragone va avanti, quasi un fiume in piena, quasi un manifesto politico di reazione orgogliosa, quasi una risposta all’appello di Scaroni: «Siamo diventati un bersaglio su cui tutti possono sparare senza provocare alcuna reazione, ad esempio la Francia di Macron. Mentre era stata accolta senza alcun problema la proprietà coreana dei cantieri navali di Le Havre, si procede addirittura alla loro nazionalizzazione (a cui si aggiunge il ridicolo aggettivo di provvisoria), purché non finiscano in mani italiane. Il tutto dopo che la Francia si è comprata mezza Italia». Per Prodi, «l’unica onorevole via d’uscita è che l’Italia usi tutti gli strumenti di difesa di cui può disporre. Nell’Unione europea esistono limiti alle asimmetrie di comportamento, anche perché, pur pienamente consapevole delle debolezze italiane, non posso ignorare le grandi fragilità della Francia nei suoi equilibri di bilancio e nei livelli di produttività del suo sistema industriale».

Ora, al netto che del sacco francese dell’industria italiana, Romano Prodi sia stato corresponsabile ad alto livello, come va valutato un attacco politico simile? Qui, infatti, non siamo più alle beghe di condominio all’interno del Pd e del suo fronte esterno per la creazione di una federazione di centrosinistra, qui siamo all’attacco frontale contro il governo Gentiloni e la sua gestione politica dell’affaire, oltretutto dalla prima pagina di un quotidiano dichiaratamente filo-governativo. Che Romano Prodi, da vecchia volpe, abbia colto cosa sta accadendo sotto traccia, più sull’asse Parigi-Berlino che su quello Roma-Tripoli? Non ci vorrà molto a scoprirlo. Anzi, penso che la settimana che si è appena aperta, ci riserverà sorprese e metterà molta carne a cuocere sul barbecue politico di agosto. Un mese che, a differenza del solito, vedrà politica e cancellerie in servizio permanente. E decisamente effettivo. Se poi, come sembra, qualche scossone arriverà anche da determinati settori del mercato, allora ci sarà davvero da divertirsi. E da ballare.