Alle 10:13 di ieri mattina, mentre tutta Italia era intenta a portare il lutto per la morte di Paolo Villaggio, l’agenzia Ansa usciva con questo lancio: “Disoccupazione maggio risale a 11,3%”. Bene, a quell’ora l’indice principale di Piazza Affari era a 20.829 punti. Dopo dieci minuti, alle 10.23, era salito a 20.874 con tendenza al rialzo, tanto che alle 12:30 il Ftse Mib segnava +1,60%. Si festeggia la disoccupazione? No, si festeggiava altro. Anzi, ci si accodava ai festeggiamenti di altri. Più o meno attorno all’ora in cui l’Istat rendeva noto il poco edificante dato occupazionale italiano, infatti, tutte le Borse europee acceleravano al rialzo dopo la pubblicazione della notizia che il settore manifatturiero della zona euro aveva archiviato la prima metà del 2017 toccando il valore più alto degli ultimi sei anni.
Il Purchasing Managers’ Index relativo al comparto manifatturiero, a cura di HisMarkit, è infatti salito a 57,4 a giugno dal 57 di maggio e oltre la lettura preliminare di 57,3. Il valore toccato a giugno è il più alto da aprile 2011, ben sopra la soglia di 50 che separa contrazione da espansione. Lo stesso sotto-indice relativo alla produzione è balzato a 58,7 da 58,3, anche in questo caso ai massimi degli ultimi sei anni, mentre la stima flash era di 58,5. Anche l’attività manifatturiera in Germania a giugno ha raggiunto il picco da oltre sei anni: l’indice PMI è salito a 59,6 da 59,5 di maggio, massimo degli ultimi settantaquattro mesi, contro una stima flash che indicava un dato inferiore a 59,3. In accelerazione anche il manifatturiero francese e italiano: lo scorso mese l’indice francese è salito a 54,8 a giugno dal 53,8 di maggio, mentre la lettura finale è leggermente inferiore alla stima flash di 55, ma ben sopra la soglia di 50. Per quanto riguarda l’attività del settore manifatturiero italiano, ha mostrato a giugno un indice a 55,2 da 55,1 di maggio contro un’attesa degli economisti che si aspettavano un’accelerazione leggermente maggiore a 55,3. Bene però il sotto-indice dei nuovi ordini, salito a 56 da 55,8 di maggio.
Nel complesso, l’economia italiana è cresciuta di 0,4% congiunturale nel primo trimestre, accelerando dallo 0,3% segnato negli ultimi tre mesi del 2016. Il Pil italiano dovrebbe quindi crescere di oltre l’1% quest’anno, un ritmo che comunque resta la metà rispetto a quello atteso per l’intera zona euro. Invece, l’indice Pmi relativo al settore manifatturiero spagnolo si è attestato a 54,7 a giugno, in calo rispetto al 55,4 di maggio ma oltre la soglia di 50. Anche il sotto-indice relativo alla produzione è rimasto saldamente in territorio positivo a 55,8, anche se in flessione rispetto al 57 di maggio. Insomma, c’è da festeggiare. E, infatti, le Borse lo hanno fatto.
Ma se torniamo al dato iniziale, quello dell’Istat, cosa ci dice? Che il tasso di disoccupazione a maggio è risalito all’11,3%, in aumento di 0,2 punti percentuali dopo il calo di aprile. Sempre per il mese di maggio, si stimano 51mila occupati in meno rispetto ad aprile e 141mila in più rispetto a maggio 2016: si tratta del primo calo congiunturale dopo 8 mesi. Risultano in aumento da aprile solo gli occupati ultracinquantenni e i dipendenti con contratti a termine: sempre a maggio, poi, cresce anche il tasso di disoccupazione giovanile, che sale al 37% con un incremento di 1,8 punti da aprile. Rispetto ad aprile, ci sono 25mila 15-24enni in più in cerca di occupazione. A chi dobbiamo credere, quindi? All’indice Pmi dell’eurozona o all’Istat?
A entrambi, il problema è il quadro generale che esce dalla contrapposizione di queste due realtà: l’Italia è completamente sconnessa anche dalla ripresa temporanea e artificiale garantita a livello europeo dal Qe della Bce. Se infatti la solidità del dato tedesco non deve stupire, sono anni che lavorano per questo, occorre sempre ricordare come il driver vero dell’Eurotower non sia l’acquisto di titoli di Stato, ampiamente prezzato dai mercati, bensì quello di titoli corporate, ovvero le emissioni di debito a costo zero da parte delle aziende europee per finanziarsi evitando il mercato (la Bce opera sia sul mercato primario che sul secondario, addirittura sul primario per il 15% del totale) e il settore bancario, a sua volta spaventato dai casi spagnolo e soprattutto italiano (Mps prima, Etruria e banche venete poi) e quindi sempre più conservativo nell’erogazione di credito e anche nelle linee di interbancario. I dati degli altri Paesi, sia a livello di manifattura che di Pil, sono molto migliori dei nostri, quasi il doppio per quanto riguarda la crescita. Quindi, chiunque abbia un minimo di coscienza, dovrebbe farsi un’unica domanda: quando verrà a mancare l’appoggio a piena forza della Bce, dove andrà a finire la nostra economia reale? Perché, certo, lo spread è un problema, ma i costi del servizio del debito, fino ad adesso, sono stati bassissimi e continueranno così per un po’, al netto delle emissione record già fatte dal Tesoro a rendimenti bassissimi. Il problema sarà per il futuro, ovvero un problema di prospettiva che andrà a toccare i costi del servizio sul medio termine, quindi un problema di outlook. Arriverà un downgrade delle agenzie di rating? Quasi certo, ma non pensiate che chi opera sui mercati creda davvero al nostro spread attuale, anzi: conoscono benissimo le criticità di fondo dell’Italia e, non a caso, hanno scaricato parte delle detenzioni di debito, portandosi avanti quando certe mosse si notano meno.
Il problema immediato è quello corporate, visto che molte grandi aziende italiane – come i loro competitor europei – stanno ampiamente usufruendo degli acquisti a prezzi di fantasia della Bce, garantendosi denaro fresco a costo zero e senza giogo bancario: quando la fiera del “ti piace vincere facile” di Francoforte sarà finita, cosa accadrà ai rating di quelle aziende e al valore dei loro bond? Di più, il dato dell’Istat non ci dice soltanto che le politiche occupazionali messe in campo con il Jobs Act sono state meramente un’illusione una tantum garantita dalla stagione della decontribuzione, ma che le grandi aziende stanno utilizzando il contante della Bce per ripianare i bilanci e imbellettare i conti, proprio in vista del redde rationem con il mercato e non per assumere, ammodernare strutture e macchinari o investire in ricerca. Insomma, una logica da cicala che potrebbe rivelarsi addirittura disastrosa in autunno inoltrato, quando una qualche suggestione di fine della festa potrebbe cominciare a contagiare i traders e il governo si troverà stretto nel giogo tra Def da preparare e piazza che, stante le fibrillazioni politiche a sinistra, potrebbe cogliere la palla al balzo per rimettere in campo rivendicazioni chiuse nell’armadio per mesi, per puro fine elettorale. Il tutto, senza contare la realtà devastante della spina dorsale del sistema, ovvero quelle Pmi che pagano un prezzo duplice: da un lato non beneficiano degli acquisti allegri della Bce e dall’altro devono fare i conti con il combinato disposto di burocrazia assassina, tasse mai così alte e sistema bancario che chiude, giorno dopo giorno, sempre più i rubinetti del credito. Insomma, una sorta di tempesta perfetta che i nostri politici, appartenenti a qualsiasi schieramento, fingono di non vedere.
E in una condizione simile, quale altro aggravio devono pagare le nostre imprese, in questo caso quelle lombarde? Quello del demenziale rinnovo delle sanzioni contro la Russia per altri sei mesi, appena deliberato dall’Ue. Interpellato da Il Giornale, il deputato europeo Stefano Maullu (Forza Italia) ha provato a calcolarne l’impatto reale: «La proroga delle sanzioni nei confronti della Russia è un grave errore di autolesionismo europeo. La Lombardia vale circa il 30% dell’export italiano verso la Russia e, se venissero eliminate le sanzioni, aumenterebbe tra i 450 e i 470 milioni di euro all’anno: 1,2 miliardi totali. Coldiretti ha calcolato in 10 miliardi il costo delle sanzioni per l’Italia in 3 anni. E il Veneto, Regione guidata dal leghista Luca Zaia, ha calcolato che l’export del triveneto verso la Russia è crollato del 37% in 3 anni. Gli ordini di grandezza corrispondono. Sempre sulla base di studi e indicatori delle associazioni di categoria interessate, si stima che senza sanzioni, si produrrebbe un aumento di affari pari a 40 milioni all’anno per l’agroalimentare». Io capisco che ognuno ha le sue perversioni, ma proprio l’autolesionismo dovevamo scegliere in materia economica? Attenti, perché l’autunno arriva in fretta.