Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha espresso pochi giorni fa a un settimanale tedesco tutta la propria preoccupazione per l’influenza crescente della Cina in Grecia: “La forza economica cinese può mettere sotto pressione i partner più fragili dell’Unione” e per questo “l’Unione europea dovrebbe parlare con Pechino come un blocco unico” e “l’Europa deve lavorare duramente per proteggere la sua influenza”. L’influenza cinese in Grecia ha visto, tra i principali interventi, l’acquisto del porto del Pireo, con il traffico raddoppiato dall’inizio della gestione cinese, e il trasferimento della quota di maggioranza della rete elettrica nazionale. È abbastanza chiaro quale sia il senso della preoccupazione “tedesca” per l’influenza cinese in Grecia, ma non sono per niente chiare le ragioni per cui la Grecia dovrebbe preoccuparsi particolarmente.
La Grecia è un Paese con un’economia distrutta a livelli che un decennio fa sarebbero stati inimmaginabili, con una disoccupazione al 23% e un Pil praticamente dimezzato dall’inizio della crisi. Sono numeri tragici che l’Unione europea ha permesso avendo chiesto e ottenuto l’austerità e non avendo offerto nessuna alternativa. Un’unione monetaria ed economica che richiede, anche giustamente, l’applicazione di certe regole non può non offrire alcuna forma di redistribuzione. In nessuna unione monetaria o economica esistono differenze così abissali, perché tutti sono vincolati a certe regole e perché le regioni forti finanziano una fiscalità statale che viene poi riversata sulle regioni deboli. Noi italiani lo capiamo benissimo, perché un lavoratore statale di Torino prende lo stesso stipendio dallo stesso Stato di uno di Cosenza e perché le infrastrutture della Basilicata sono state costruite con i soldi di tutti anche se da Milano escono più tasse pro capite che da Potenza. La Grecia non può preferire l’Europa alla Cina per tante ragioni.
La prima è che la Cina investe nel Paese, aumentando la dotazione infrastrutturale, e l’Europa no; la seconda è che il ruolo della Grecia in Europa è quello della periferia della periferia senza alcuna prospettiva, mentre per la Cina la Grecia può avere un ruolo strategico. Il porto del Pireo non potrà mai fare concorrenza a quello di Pechino, ma può fare concorrenza a quello di Rotterdam o Amburgo. Per la Grecia mille volte meglio gli investimenti cinesi che l’Europa; davvero non si capisce perché la Grecia dovrebbe o dovrebbe voler dire di no ai soldi cinesi per l’Europa in cui è destinata a morire economicamente. Il peso politico dei greci in Europa oltretutto oggi è nullo.
Cambiando punto di vista e assumendo quello tedesco invece il ragionamento fila benissimo. La Germania ha bisogno di un quadro di regole e leggi, che oggi può essere solo europeo, che blocchi le scorribande cinesi su pezzi strategici dell’industria tedesca; allo stesso tempo l’assetto attuale europeo è il massimo della vita per la Germania che esporta nel mondo a più non posso con una valuta debole e costi del lavoro bassi, gli stipendi cinesi ormai sono più alti di quelli di alcuni Paesi est europei, accumula surplus commerciali record senza dover mettere mano al portafoglio per pagare il biglietto dei benefici di questa unione monetaria; condividendo gli oneri del debito o semplicemente contribuendo per la sua quota parte a un “welfare” europeo.
La valuta debole europea è frutto della condivisione dei problemi greci, ma questa condivisione si ferma quando non coincide più con gli interessi dei Paesi forti. In questo caso l’interesse della Grecia ad avere rapporti economici con la Cina e i suoi investimenti viene dopo quello del sistema Paese tedesco che sembra concepire l’Europa come una sua esclusiva sfera di influenza economica e politica. La frase di Angela Merkel a proposito degli investimenti cinesi in Grecia, “l’Europa deve lavorare duramente per proteggere la sua influenza”, sembra frutto di un lapsus senza il quale la prima parola sarebbe stata Germania. Se l’Europa vuole impedire gli investimenti cinesi in Grecia dovrebbe offrire ai greci una alternativa accettabile; quella attuale, al 23% di disoccupazione, non lo è sicuramente.