“Come sistema-Paese e anche noi dirigenti delle banche abbiamo tardato a chiedere via libera a forme di intervento robuste e giocando d’anticipo”: così, riferendosi all’idea di creare già qualche anno fa un’unica, grande “bad bank” nazionale che ripulisse il sistema creditizio italiano dai troppi debiti in sofferenza, si esprime oggi in un’intervista al Corriere della Sera Roberto Nicastro, già presidente delle quattro good-bank scaturite dalla “risoluzione” di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Carife. È rilevante che lo abbia fatto perché Nicastro è – come ampiamente dimostrato con i comportamenti – un uomo “di sistema”, attento all’interesse generale del Paese, non certo un esponente anti-sistema, ed è una persona equilibrata.



Però oggettivamente negli ultimi anni, dal governo Monti in poi, l’indolenza con cui il nostro Paese ha gestito e sta ancora gestendo l’emergenza banche è state tale da non essere comprensibile. Tanto che anche gli osservatori più sereni e distaccati non possono esimersi da critiche, pur se non personalizzate. Un’indolenza che illumina con una luce grottesca il trionfalismo con cui il ministro dell’Economia Padoan ha avuto lo spirito di commentare il via libera europeo all’intervento statale nel Monte dei Paschi di Siena.



È come se la politica non percepisse più lo iato che c’è tra le esigenze reali del Paese e i propri comportamenti, e i propri commenti. A cominciare – sia chiaro – dalla politica delle istituzioni europee, che però misteriosamente non trovano in Italia alcun controcanto. Parole vane, quasi irritanti. Ieri la commissaria europea alla concorrenza Margrethe Vestager ha detto che “il Monte dei Paschi dovrà riorientare il suo modello di business verso la clientela al dettaglio e le piccole e medie imprese”: capirai la novità. E non è vero che la crisi sia intervenuta solo perché il Monte aveva finanziato anche le grandi imprese; pronunciarle con tanta genericità è come dire che la Ferrero dovrà riorientare il suo modello di business verso il cioccolato. Parole vane. Chiacchiere ovvie. E quindi irritanti.



E Padoan, che poi è quasi intralciato dal suo stesso modo di parlare e di gestire quando tenta di ostentare quel trionfalismo renziano che purtroppo, a livello lessicale, gli si è appiccicato addosso, ha presentato la fine, almeno provvisoria, del calvario senese, come un’esperienza “dalla quale sarà utile trarre lezioni per il funzionamento dell’Unione bancaria”. Già, semmai, sul come non-farla funzionare. È ingeneroso gettare la croce addosso alla politica nazionale per come ha gestito le proprie scelte nell’interno delle regole europee. Il vero quesito – dribblato a oggi dai nostri leader – è perché non forzarle, contestarle apertamente, almeno impugnarle, queste regole, nella misura in cui hanno reso possibili autentici “mostri” logici ed economici: come ad esempio, l’aver fissato al 17,5% il valore al quale vendere le sofferenze bancarie delle quattro banche di Nicastro, cioè molto al di sotto delle medie delle transazioni libere di mercato, deprimendole. 

Sempre Nicastro, commentando i tempi occorsi per la vendita delle quattro banche – peraltro perfezionata a valori simbolici, un solo euro pagato da Ubi per tre di esse e un altro da Bper per Cariferrara – ha sottolineato un’altra verità: nei cinque mesi che erano stati teoricamente imposti dall’Europa per quelle vendite non si fa in tempo nemmeno a vendere una banca perfetta. Di qui un senso interpretativo nuovo sulla scelta del governo di vendere a Intesa, ancora per un euro, la parte buona delle due banche venete: hanno avuto paura che aprendo una vera gara internazionale per l’acquisto di quegli asset, avrebbero avuto altre lungaggini. Ma hanno sbagliato di nuovo, perché nel caso delle quattro banche piccole il “perimetro” degli asset in vendita era stato definito dai venditori, e conteneva ancora attività industrialmente quanto meno problematiche; nel caso delle due good-bank provenienti dalle ex popolari venete, il perimetro l’ha tracciato l’acquirente, e si direbbe davvero privo di controindicazioni. Da qui, forse, la possibilità di offrire lo stesso perimetro all’asta sul mercato. Ma non è stato fatto.

Quel che resta dello scenario sono solo macerie. Il risparmio degli italiani è stato oggettivamente colpito con durezza da queste procedure, anche se gli errori commessi da tutti – risparmiatori compresi, per quanto spesso ignari dei pericoli che correvano: ma la legge non ammette ignoranza – non hanno ancora trovato una contabilità chiara. Lo Stato butta la palla in tribuna, promettendo ristori e rimborsi di dubbia tempistica ed entità. E nel frattempo decanta un’azione che tutt’è stata fuorché tempestiva e convincente.

Cosa resta in ballo? La tenuta del sistema nel suo insieme la speranza che l’incendio della crisi non si propaghi ad altri istituti – e si sa che alcuni, in sofferenza, ce ne sono. Resta la crisi di modello che ha colpito alcuni quadranti di storica affidabilità: il Veneto operoso, che in fondo è all’origine non solo della crisi delle sue due grandi popolari, Veneto Banca e Popolare Vicentina, ma anche del Monte dei Paschi, la cui fine ha avuto origine dopo l’acquisizione a prezzi folli di un’altra popolare veneta, l’Antonveneta, che aveva in pancia dieci miliardi di crediti cattivi. 

O come il modello toscano, quello della solidarietà d’impresa diffusa su un territorio meraviglioso, rivelatosi incapace di mantenere un minimo di meritocrazia nella selezione e nell’autobonifica della propria classe dirigente, incapace di presidiare la propria differenza rispetto a una deriva di corruzione e opacità che ha determinato un buco incredibile, se si pensa ai 13 miliardi di aumenti di capitale fatti invano dal Monte negli ultimi anni e ai 26 miliardi di sofferenze ancora da smaltire. Un modello tanto incapace di funzionare da risultare pura millanteria.