Un’ottantina di anni fa circa, Carl Schmitt scriveva quanto segue: «Oggi sappiamo che la guerra più terribile può essere condotta solo in nome della pace, l’oppressione più terrificante solo in nome della democrazia e la disumanità più abbietta solo in nome dell’umanità». Non vi ricorda i tempi che stiamo vivendo? Oggi i ministri dell’Interno europei si ritroveranno a Tallinn, in Estonia, per discutere di migranti: pensate che dalla discussione emergerà qualcosa di costruttivo, alla luce delle mosse di Francia, Spagna e Austria? Ovviamente no, ma questi vertici servono, per la stessa logica espressa da Schmitt: darci l’impressione di vivere in un regime democratico. Di più, dimostrare che l’Europa è democratica. 



Domani, invece, prenderà il via il G20 di Amburgo, questo sì un vertice che ci potrebbe dare delle risposte serie: a latere del consesso ufficiale, infatti, si terrà il primo incontro faccia a faccia fra Donald Trump e Vladimir Putin, in piena bufera mediatico-politico negli Usa legata proprio al cosiddetto Russiagate. L’entourage della Casa Bianca ha già detto che l’argomento non verrà trattato e che, anzi, si cercheranno punti in comune su argomenti di fondamentale importanza come Siria e Corea del Nord. Nel primo caso, il presidente russo arriverà ad Amburgo forte del bilaterale tenuto martedì con il presidente cinese Xi Jinping, al termine del quale non si è giunti solo alla firma di contratti per un controvalore di 10 miliardi di dollari, ma anche a una dichiarazione comune nella quale chiedono a tutte le parti coinvolte di «supportare gli sforzi dell’Opac e dell’Onu per un’inchiesta che chiarisca la realtà dei casi di uso di armi chimiche denunciati in Siria». Non una mossa da poco, perché poche ore prima della dichiarazione, la stessa Opac aveva negato il suo interesse a inviare suoi esperti sul luogo del presunto attacco chimico di aprile, a Khan Sheykun, poiché già in possesso di materiale fotografico. 



Di più, la stessa Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, la scorsa settimana, aveva sentenziato nel suo rapporto definitivo che in Siria era stato utilizzato gas sarin, ma non sapeva accertare da chi: alcune commissioni d’inchiesta italiane sono arrivate a conclusioni più ficcanti. E ho detto tutto. E siccome da giorni circolava in ambienti russi e siriani la certezza di una false flag in preparazione da parte di miliziani di Al-Nusra per far incolpare Assad proprio di utilizzo di armamento proibito, atto propedeutico a un nuovo attacco Usa, ecco che Mosca ha imposto un cessate-il-fuoco nella zona attenzionata fino alla mezzanotte di oggi: della serie, se succede qualcosa, il colpevole è presto trovato. Da domani in poi, difficile che qualcuno provochi così apertamente, visto che Donald Trump e Vladimir Putin siederanno allo stesso tavolo: un attentato durante il G20 non è cosa che si fa con tanta leggerezza. 



C’è poi il capitolo Corea del Nord, il quale per gli Usa si tratta di fatto di un capitolo Cina. E a chiarire che la luna di miele con Pechino pare conclusa, ci ha pensato ieri proprio Donald Trump con uno dei suoi proverbiali tweet, nel quale si chiedeva come potersi fidare dell’impegno cinese nella mediazione con PyongYang, «quando il commercio tra la Cina e la Corea del Nord è cresciuto quasi del 40%». Poi, l’apertura: «Comunque, dobbiamo lasciargli un tentativo». Stranamente, la tensione tra Corea del Nord e Usa è salita alle stelle proprio alla vigilia del G20 e nel giorno dell’indipendenza Usa, con PyongYang che ha sparato un missile balistico capace di colpire l’Alaska e Washington che ha risposto dando vita a un’esercitazione militare congiunta con Seul. Di più, sottolineando come PyongYang sia in possesso di un razzo intercontinentale, il segretario di Stato Usa, Rex Tillerson, ha invocato 1un’azione globale contro Kim Jong-un» e intimato che «nessuno dia aiuti economici o militari alla Corea del Nord». Ieri, poi, della questione è stato investito anche il Consiglio di sicurezza dell’Onu, su diretta richiesta statunitense. Tutto alla vigilia di uno dei G20 più delicati di sempre. 

Coincidenze. Come è frutto da casualità il richiamo di Tillerson all’embargo verso PyongYang e il tweet di Trump con esplicito riferimento al commercio bilaterale tra Cina e Corea del Nord. Ancora una volta, siamo alla diplomazia della Settimana enigmistica, basta unire i puntini. Lo chiamano G20, di fatto è un G3. Con l’Europa, come al solito, costretta al ruolo di spettatore. Ospitante, in questo caso. Il problema è che la continua propalazione di provocazioni nei due scenari geopolitici proxy di cui vi ho parlato porta con sé proprio una conseguenza nefasta per l’Europa, Italia in testa: la non presenza nell’agenda dei lavori del vero punto caldo attuale, la Libia, come descritto nello straordinario articolo di Alberto Negri ieri sul Sole 24 Ore. Oggi passa tutto da lì, la questione migranti come i processi destabilizzazione dell’intera area mediorientale, visto che l’attentato di Manchester ci ha mostrato con quanta criminale spensieratezza i servizi segreti britannici usino Tripoli come collettore di informazioni e infiltrati, gli stessi che poi sfuggono ai controlli. E al controllo. 

Certo, il fatto che – come riportava l’agenzia Tass – i membri dell’opposizione armata siriana, compresi i rappresentanti dei fronti settentrionali e meridionali, ieri abbiano preso parte alla seconda giornata di colloqui di Astana per il futuro della Siria, finora boicottati, rappresenta una speranza reale verso una tregua solida, ma l’opposizione netta, espressa ancora ieri, da Emmanuel Macron a uno sbocco diplomatico gestito, di fatto, da Iran, Russia e Turchia dimostra quanto ho scritto da me ieri, ovvero che la Francia è il nuovo punto di riferimento europeo del Deep State. In tal senso, sarà interessante capire come Parigi muoverà le sue carte al G20, soprattutto quanto si spingerà nella sua russofobia conclamata, stante la debolezza diplomatica piombata nelle ultime settimane sulle spalle di Angela Merkel. Stanno mandando in onda un enorme videogame con scenari estremi, dimenticando però i nervi scoperti delle problematiche reali: gli Usa hanno bisogno di un conflitto – diretto, ibrido o asimettrico, poco cambia – perché la situazione economica ormai lo impone. 

A dimostrarlo ci ha pensato ieri il proxy migliore per l’industria Usa, ovvero il settore automobilistico. Questo grafico ci mostra come i dati di vendita di giugno, meno peggio delle attese, abbiano innescato rialzi – ancorché non entusiasmanti – sui titoli principali del comparto. Ciò che non viene detto è cosa hanno dovuto fare le case automobilistiche per ottenere quei risultati sul mercato Usa. Proprio nel mese di giugno, le spese in incentivi per il settore sono salite del 10% su base annua, con marchi come Hyundai e Honda che hanno registrato addirittura un +42% e +20% e Subaru, l’azienda che spende meno di tutti in incentivi, qualcosa come +63% . Tutto, pur di vendere, tutto pur di liberare un po’ i piazzali saturati dei concessionari statunitensi. Sconti mai visti, sintomo che il settore più finanziato a livello federale è costretto a raschiare il fondo del barile e a erogare credito al consumo a clientela sempre più subprime. 

Serve qualcosa che riattivi il moltiplicatore keynesiano del Pil, serve il warfare bellico e la Corea del Nord potrebbe essere perfetta, se soltanto Pechino accettasse di fare il lavoro sporco: ovvero, gestire il regime change a PyongYang, permettendo a Washington di limitare la sua azione a dei wargames meramente propagandistici, ma utilissimi per far accettare ai cittadini statunitensi una corsa agli armamenti. 

Peccato che proprio ieri i ministri degli Esteri di Cina e Russia, in una nota congiunta, abbiano sottolineato che «la crisi della Corea del Nord non può essere risolta con la forza o tentando di soffocare economicamente il Paese. La denuclearrizzazione dell’intera penisola di Corea non può e non deve essere usata come scusa per tentativi di cambiare il regime a PyongYang». Insomma, contrapposizione totale. Tutto per interesse: politico, geopolitico ed economico. Tutto, nel segno del G3. Quando, in realtà, se esiste una bomba già senza spoletta, quella è la Libia. Guarda caso, una polveriera innescata nel 2011 proprio dalla Francia. Chissà se, corsi e ricorsi della storia, Emmanuel Macron cercherà di cambiare l’agenda di Amburgo. Una cosa è certa, la narrativa del G20 non è la realtà. È Matrix. E saremo proprio noi a pagare le conseguenze di questo gioco di specchi e interessi che passano sui destini d’Europa, perché se salta la Libia quest’estate, il fallout sarà devastante. Altro che nuovi hot-spot.