La performance eccezionale del mercato americano degli ultimi mesi e anni è stata spiegata in lungo e in largo. Le politiche espansive delle banche centrali e l’abbassamento dei tassi di interesse hanno avuto come effetto collaterale un incremento della propensione al rischio degli investitori obbligati a scelte più coraggiose nel tentativo di ottenere rendimenti che le obbligazioni statali o societarie non erano più in grado di offrire. Più recentemente il mercato ha festeggiato “l’effetto Trump”; gli investitori scommettevano che il nuovo presidente avrebbe rimesso nelle tasche degli americani un po’ di soldi abbassando le tasse e promuovendo un piano di investimenti infrastrutturali; si scontava anche una maggiore attenzione per l’industria tradizionale e un conseguente miglioramento dei salari e del mercato del lavoro.
Qualsiasi cosa si pensi dell’attuale Presidente, questo effetto dovrebbe già essere ampiamente rientrato con un’Amministrazione completamente depotenziata dal Congresso. Anche l’effetto delle banche centrali, seppur ancora presente, è nella migliore delle ipotesi già al picco. Nonostante questo, gli indici continuano ad aggiornare i massimi ignorando sia l’impasse politica americana, sia le tensioni internazionali. Sotto questa superficie emergono però alcune “stranezze” che suggeriscono ci possa essere altro rispetto a una delle bolle che ciclicamente affliggono i mercati.
La volatilità è ai minimi di sempre e lo è stata per un numero di giorni che non ha alcun paragone con qualsiasi altro periodo dei mercati finanziari che pure hanno una storia lunga e piena di eventi decisamente interessanti. Da un punto di vista statistico, da mesi si ripete una situazione che in qualsiasi altri periodo sarebbe apparsa fuori dal grafico “non è normale” è troppo poco per descrivere quello che accade da mesi. Allo stesso modo la variazione giornaliera media del mercato americano nelle ultime settimane è stata estremamente contenuta. È come se il mercato americano fosse da mesi in una situazione di stasi assoluta che non ha riferimenti in una situazione politica interna ed esterna molto movimentata.
Già qualche mese fa illustri commentatori del mercato azionario americano, tra cui Asher Edelman, attribuivano queste stranezze a un intervento diretto del governo americano attraverso l’azione del “plunge protection team” creato sotto Reagan per evitare che si riproponesse il crollo delle borse del 1987. Questo team sarebbe in azione da mesi e in particolare dall’elezione di Trump quando nella notte successiva ai risultati si palesava la possibilità di un crollo. La questione non si esaurisce al tentativo di evitare che il tornado Trump mandasse all’aria il mercato americano. La questione è più ampia, così come le radici di queste anomalie statistiche risalgono a un tempo precedente. La domanda che bisognerebbe porsi è se “l’America” possa permettersi un’altra crisi finanziaria come quella del 2008.
Un’altra crisi colpirebbe in un contesto in cui le munizioni delle banche centrali, Fed inclusa, sono esaurite, il debito pubblico è già cresciuto del 50%, le disuguaglianze tra ricchi e poveri sono ai massimi di sempre e in cui il miglioramento del mercato del lavoro è stato trainato soprattutto da lavori pagati poco e male, mentre il tasso di partecipazione al lavoro non è mai tornato ai livelli pre-crisi e i debiti personali rimangono alti. In questo contesto l’America è impegnata in un braccio di ferro con Cina e Russia e sta incassando gli insuccessi in Medio Oriente e in Europa. L’America molto probabilmente non può permettersi un altro 2008, né il rischio che le vendite sul mercato si trasformino in una rotta fuori controllo.
In quest’ottica la stranezza di un mercato in cui non sono consentiti movimenti “strani” sembra in realtà un mercato tenuto saldamente sotto controllo e più che un segno della forza della “ripresa” americana un sintomo della sua debolezza.