Il 10 agosto 2007 Société Générale annunciò il blocco dei riscatti dei fondi investiti in titoli subprime. È la data da cui gli storici fanno discendere l’avvio della crisi più grave degli ultimi settant’anni. Ma non è ancora il caso di scomodare gli storici dell’economia, perché, ahimè, gli effetti della grande crisi sono ancora presenti. In Francia, nota il quotidiano Les Echos, la produzione industriale registra ancora valori inferiori del 10% rispetto a quella data. Da allora, l’occupazione nelle manifatture d’Oltralpe, è scesa di 500.000 unità nonostante che, dal 2012, la produttività del made in France sia salita più che in Germania. Eppure il Prodotto interno lordo francese è risalito da tempo oltre i valori pre-crisi: già a fine 2016 il dato era risalito di 6,5 punti rispetto a dieci anni prima.
Il confronto con i cugini più odiati che amati di Parigi serve a dare una dimensione ai problemi del Bel Paese, alle prese con un passaggio delicato: l’Italia, assieme al Portogallo e alla Grecia, è l’unico Paese dell’eurozona che non è ancora tornato ai livelli di quel fatidico 2007. Rispetto ad allora il Pil registra un ritardo di 6,2 punti, una caduta che si spiega anche con la perdita di capacità produttiva del nostro sistema industriale: il 25% delle nostre fabbriche è andato in fumo, assieme a 1,1 milioni di posti di lavoro, solo parzialmente colmati dai nuovi ingressi: 800 mila assunzioni, spesso a livelli contrattuali e salariali inferiori. Il ritardo della Penisola sui partner è abissale. Rispetto al 2007 gli Stati Uniti registrano una crescita del 14,6%, il Regno Unito dell’11,1%, la Germania del 10,9%. Anche la Spagna, seppur da pochi mesi, ha varcato la “linea rossa” e si accinge a registrare un promettente +2,1% a dicembre. Addirittura avvilente il paragone con la Cina: in questi dieci anni il Pil del Drago (+119%) è più che raddoppiato.
La mancata crescita serve a spiegare le altre sofferenze, a partire dal lavoro. Il tasso di disoccupazione alla fine del 2007 era del 6,5%, quello registrato a giugno 2017 è stato dell’11,1%. Ma l’occupazione è una spinta un po’ per tutti, al di là delle statistiche. Anche negli Usa, nonostante l’euforia dei mercati finanziari, gli occupati sono appena tornati in queste settimane ai valori di dieci anni fa. Solo la Germania registra un sensibile miglioramento (+4,6%). Il malessere italiano è, per giunta, ancora ben presente nei bilanci: secondo R&S di Mediobanca, nel 2016 le imprese industriali e dei servizi italiane hanno perso il 2% del fatturato, la quarta flessione consecutiva dal 2013. Solo la manifattura è tornata di recente sui livelli pre-crisi (+0,8%). Ma solo grazie a Sergio Marchionne: senza i progressi dell’auto, la grande industria sarebbe ancora sotto del 6,8% rispetto ai livelli del 2007.
Eppure anche il più inguaribile dei pessimisti è costretto ad ammettere l’esistenza dei consistenti segnali di ripresa di questi mesi: migliora la produzione industriale (+5,3% da inizio anno); si mantiene su livelli record la bilancia commerciale (4,5 miliardi a giugno), migliora il Pil che, da una previsione di +0,8% a inizio 2017, promette di salire fino all’1,4% su base annua. Il prossimo rientro in Borsa di Monte dei Paschi, tornato temporaneamente (si spera) nell’area pubblica, segnala la fine della crisi bancaria. Ne approfittano le banche, più ancora Piazza Affari, a sorpresa il miglior listino del 2017, con un rialzo attorno al 12%, ben superiore a quelli di Francoforte e Parigi. Troppo poco, per la verità, per colmare il distacco del 50% rispetto alle quotazioni di dieci anni fa.
Può bastare questo dato a spiegare che, come ha detto il ministro Carlo Calenda, il peggio non è ancora passato. Ma non si può negare che la ripresa sia in atto. Niente di formidabile, per carità. Però è un’occasione da non perdere a pochi mesi dalla scontata conclusione del Quantitative easing che c’imporrà di trovare altre soluzioni per non compromettere la ripresa appena cominciata. Una grande sfida che è alla nostra portata se si pensa che nel corso di questi dieci anni l’Italia ha saputo realizzare sempre un fabbisogno primario (cioè al netto degli interessi) positivo e il nostro export sale a un tasso doppio della Francia. L’importante è impiegare le non molte risorse in maniera efficace senza disperderle in mance elettorali o smantellando la Legge Fornero che, piaccia o non piaccia, è oggi un plus rispetto al resto dell’eurozona.