La celebrazione di un decennale – categoria storica già invecchiata nel ventesimo secolo – può apparire del tutto inutile, forse dannosa per la crisi finanziaria che dall’estate 2007 ha scardinato ogni certezza nelle cose e nella loro interpretazione. Come ha ironicamente notato Harold James ripreso dal Sole 24 Ore, nell’economia del globo “nulla è più vero e nulla è impossibile”, al pari della Russia post-sovietica. 



Lo studioso di Princeton, a ogni buon conto, cita il fallimento di due casse di risparmio tedesche come momento-zero e già questo “lapsus” è indicativo di quanto la crisi sia certamente lungi dall’essere superata sul piano intellettuale e quindi sociopolitico. Nell’estate 2007 era una banca britannica (Northern Rock) a riempire le cronache e alimentare gli allarmi. E soprattutto: le due banche tedesche furono fra le prime vittime della crisi, avendo sottoscritto oltre ogni valutazione di rischio le obbligazioni derivate prodotte in quantità enormi negli anni precedenti nella City di Londra e a Wall Street. Ci sbaglieremo, ma se uno storico di Cambridge trapiantato in una delle più blasonate università della Ivy League americana insiste sull’epicentro tedesco, dieci anni fa, e deplora che il mondo somigli sempre di più alla Russia putiniana, significa che l’orologio culturale è rimasto fermo. Che il “passato” che ha condotto al crac Lehman Brothers non è affatto “passato”.



Sui rispettivi fronti, le posizioni “celebrative” restano intatte. Gli opinionisti che dieci anni fa si affannavano a minimizzare l’implosione dei mercati come “incidente di percorso” o “crisi di crescita” della finanza globalizzata, oggi non hanno esitazioni a dichiarare “missione compiuta”. Il sistema bancario è stato rimesso in sicurezza e ristrutturato, le Borse hanno ripreso a funzionare e gli indici sono anzi a livelli molto alti, i Pil hanno ritrovato la via dello sviluppo (tranne eccezioni come l’Italia, quasi impercettibili a livello globale) e questo grazie al buon lavoro delle banche centrali. 



Gli effetti collaterali sociopolitici (a cominciare da quelli che hanno colpito anzitutto la Gran Bretagna con Brexit e gli Usa con la vittoria di Donald Trump su Hillary Clinton) continuano a essere osservati con frettoloso fastidio da establishment finanziari, tecnocrati ed economisti liberisti. Sono gli stessi ambienti che avrebbero continuato a ignorare e blandire i “giochi nucleari” della Corea del Nord, così come gli Usa di Obama si sono completamente disinteressati dell’incendio che si è propagato nell’intero Medio Oriente. Sono gli stessi “cosmocrati” che non hanno abbandonato una strategia di “inclusività” meno buonista di quella raccontata dal politically correct: che quindi nessun angolo del pianeta (a cominciare dalla Cina) può sottrarsi all’attrazione di un globalismo omogeneizzante tracciato dalla infanzia di mercato e dai Grandi Fratelli tecnologici. 

In attesa che Fred Zuckerberg si candidi a cancellare “l’anomalia Trump” in un’America restìa all’iper-democrazia obbligatoria dettata dalla globalizzazione, in un piccolo luogo chiamato Italia accadono fatti socialmente inauditi, con conseguente poco predicibili. Da almeno centocinquant’anni chiunque riuscisse ad accumulare piccolo risparmio (virtù civile a tutti gli effetti) portava i propri quattrini in una banca: perché venissero custoditi, remunerati e alimentassero l’intermediazione creditizia. Se nel 2007 – secondo un copione classico – i depositanti di Northern Rock correvano agli sportelli per ritirare i propri risparmi in pericolo, dieci anni dopo le banche italiane stanno chiamando a gran voce i loro clienti, invitandoli bruscamente a riprendersi indietro i loro risparmi, a meno di non accettare penalizzazioni (tassi negativi) che sono anzitutto aliene sul piano culturale. Per di più i risparmiatori hanno poca scelta: farsi restituire i quattrini sotto al materasso è di atto illegale e quindi non resta che investirli forzatamente nei prodotti di gestione finanziaria offerti dalle banche.

Negli anni precedenti il 2007, in fondo, le cose non andavano diversamente, anche se la sceneggiatura era più accattivante: le banche europee venivano allettate dalle fabbriche di finanza con alti rendimento (a rischio controllato secondo le agenzie di rating) alternativi al duro lavoro (reale) di fare credito alle imprese reali.