TERZA GUERRA MONDIALE. Sono stato facile profeta con il mio articolo di venerdì dicendovi di stare attenti a come il Venezuela si sarebbe palesato dal nulla nel pieno della crisi fra Usa e Nord Corea. Detto fatto, sabato Donald Trump ha detto chiaro e tondo che un’opzione militare per riportare la democrazia nel Paese sudamericano è sul tavolo, insieme ad altre. Ieri alcuni quotidiani riportavano la smentita del Pentagono, ma c’è poco da smentire: era infatti metà giugno quando la flotta degli Stati Uniti d’America, insieme alle forze di altri diciotto Stati della regione, intraprese delle imponenti esercitazioni navali nelle acque del Mar dei Caraibi, nome in codice Tradewinds 2017. Fu divisa in due fasi. La prima, nelle acque territoriali di Barbados iniziò il 6 giugno e terminò il 12, mentre la seconda fase ebbe inizio il 13 di giugno e terminò il 17 giugno.
Stando all’ammiraglio Kurt Tidd, attuale comandante del Comando meridionale della flotta statunitense, le esercitazioni hanno lo scopo di sviluppare una sinergia sempre più forte tra gli Stati Uniti e gli alleati della regione, sia per confrontarsi con eventuali disastri naturali – vedi Haiti -, sia per contrastare nemici comuni via terra e via mare, oltre che i traffici illeciti. Si parlava di qualcosa come 3mila soldati, di cui la gran parte provenienti dai reparti della Marina statunitense.
La scelta di svolgere queste esercitazioni al largo delle coste del Venezuela non è ovviamente stata casuale: qualcuno parlava di una prova di forza in cui si accusa gli Stati Uniti di mostrare i muscoli per riportare il governo di Maduro a più miti consigli, qualcun altro delle prove generali di qualcosa di più. E se il Comando statunitense ha parlato di una manovra tesa a coadiuvare gli alleati in caso di conflitto nella regione, dall’altro lato, il governo statunitense e i suoi alleati non hanno mai nascosto di considerare il Venezuela un fattore destabilizzante in tutta l’America.
Proprio per questo motivo, la scelta da parte di Washington di riaffermare il proprio ruolo militare in tutta l’America, anche in quella Latina, dimostra la volontà degli Stati Uniti e dei suoi alleati di non farsi cogliere impreparati nel caso in cui la crisi del Venezuela degenerasse in una vera e propria guerra civile. In quel caso, l’intervento militare degli Usa e degli alleati centroamericani e sudamericani, potrebbe essere un’opzione molto più che ipotetica.
Lo scrivevano analisti Usa a metà giugno, non il sottoscritto. Ma come vi dicevo venerdì, il Venezuela è soprattutto il proxy perfetto per prendere due piccioni con una fava: Caracas, infatti, vede sia Cina che Russia fortemente interessate al futuro del Paese, visti contratti e concessioni petrolifere in atto, un regime preferenziale che correrebbe seri rischi in caso di regime change a guida – anche dietro le quinte – statunitense. E quanto questo proxy potrà essere utilizzato per forzare la mano lo scopriremo a breve, visto che proprio oggi Donald Trump chiuderà ufficialmente la sua luna di miele con la Cina, visto che inviterà formalmente il suo rappresentante per il commercio, Robert Lighthizer, a indagare sulle pratiche della Cina legate alla proprietà intellettuale. È quanto riportava venerdì il sito web Politico, solitamente informatissimo, citando un funzionario dell’amministrazione Usa sotto anonimato.
Questo mese, inoltre, era atteso che Trump ordinasse anche una cosiddetta indagine Section 301 in base al Trade Act del 1974, ma il provvedimento era stato rimandato dal momento che la Casa Bianca stava operando pressioni per ottenere la cooperazione della Cina per porre un freno al programma nucleare della Corea del Nord. Il sito riporta che l’indagine non implicherà sanzioni immediate, ma potrebbe alla fine portare a tariffe più alte sui beni cinesi: oltre agli Stati Uniti, anche Unione europea, Giappone, Germania e Canada hanno espresso preoccupazioni per il comportamento della Cina legato al furto di proprietà intellettuale, soprattutto nel settore tecnologico. Insomma, dopo la strisciante guerra valutaria, ora è guerra commerciale. Almeno nei sui prodromi: di fatto, in tema di economia globale e accordi internazionali, l’amministrazione Trump vede oggi il suo primo giorno di reale insediamento.
La mossa, però, potrebbe essere soggetta a cambiamenti dell’ultim’ora, visto che nel fine settimana Donald Trump e Xi Jinping si sono sentiti lungamente al telefono, cercando di diradare le differenze sulla questione nord-coreana: «Nessuno desidera più di me una soluzione pacifica», aveva affermato Trump nell’imminenza della telefonata, ribadendo però che Pyongyang sarà in «grossi, grossi guai se qualcosa accade a Guam».
Il presidente americano è però evidentemente rimasto insoddisfatto dalla freddezza cinese e ha aumentato la pressione, usando quindi l’arma commerciale. E chi pagherebbe i prezzi più alti? Questo grafico ci mostra il bilancio commerciale degli Usa con la Cina per singolo prodotto e vediamo che le voci positive per Washington sono gli aerei e il settore agricolo, in particolar modo – si stenta a crederlo – la soia. Parliamo però, nel complesso, di un commercio bilaterale totale da più di mezzo triliardo di dollari l’anno, cui – in caso di interventi su dazi e tariffe – pagherebbero un conto salato big Usa come Apple, la quale assemblea i suoi prodotti in Cina per il mercato interno statunitense o coloro i quali stanno cercando di calmierare la domanda del mercato del consumo cinese, sempre in espansione.
Pagherebbero pegno i due settori in attivo sul bilancio, ovvero agricoltura e aziende legate a trasporti ed equipaggiamento, ma anche ditte legate alla manifattura che importano prodotti intermediati dalla Cina come input nel loro processi di produzione. Ma anche giganti del retail come Wal-Mart e gli stessi consumatori Usa, i quali beneficiano dei bassi prezzi delle importazioni cinesi su comparti come elettronica di uso quotidiano, abbigliamento e accessori.
Sarà vera guerra? Difficile dire se lo sarà da subito – non penso proprio -, ma sono troppe le questioni che si intrecciano e i nodi che stanno venendo al pettine: l’aver lasciato la globalizzazione correre senza regole, ora presenta il conto. Così come l’eterna speranza che, caduto il Muro, si potesse vivere di un equilibrio multipolare, di fatto incentrato sul paradosso di un bipolarismo palese come quella Cina-Usa. Ora il tempo dei rinvii comincia a scadere e, come accade con la polvere sotto il tappeto, il lavoro da fare è molto. Così come molti – e sempre crescenti – sono i rischi.