Lasciate pure che il governo si lisci le penne con il suo +0,4% di crescita del Pil, ci sono cose serie di cui parlare. Vi avevo detto che l’estate sarebbe stata turbolenta e così è: siamo in piena guerra eppure nessuno sembra volerci fare caso. E non mi riferisco a quanto emerso martedì in Germania rispetto al Qe, ma a qualcosa che è saltato fuori ieri e che, nel silenzio di media, ha mostrato quanto la situazione sia seria e quanto il Re monetarista ormai sia nudo. Partiamo un secondo dalla Germania. Sulla calura e sull’oblio ferragostano dell’Italia, è calata infatti la notizia che il Quantitative easing avviato dalla Bce potrebbe violare le regole sul divieto di finanziamento agli Stati, stando appunto a quanto stabilito dalla Corte costituzionale tedesca. La quale, tuttavia, ha chiesto che una decisione definitiva sia presa dalla Corte europea di giustizia, nel quadro dei procedimenti avviati dai giudici costituzionali tedeschi sulla base di vari ricorsi contro il Qe. 



Insomma, una pantomima. Quella sentenza è pronta da tempo ed è solo l’ennesima minaccia formale, tanto più che a conferma del carattere da barzelletta dell’intera politica è arrivata ieri la difesa di Wolfgang Schaeuble nei confronti di Mario Draghi: «Ha agito entro il suo mandato», quasi a voler perpetuare in questo modo la logica da tensione permanente. Altrimenti non si spiegherebbe l’appello della Corte di Karlsruhe a quella Europea, classico esempio di voler calciare in avanti la lattina rispetto a un tema che i tedeschi stessi sanno non aver costrutto: senza il Qe, metà delle aziende tedesche sarebbe con l’acqua alla gola per necessità di finanziamento. Non starei nemmeno ad agitare ipotesi dietrologhe, a mio avviso la sparata tedesca è stata più strumentale alla copertura dello scandalo AirBerlin in fallimento – la quale sta evitando una figuraccia mondiale in piena stagione turistica solo grazie a un prestito d’emergenza, altrimenti vedremmo le file di turisti a terra negli aeroporti, alla faccia della teutonica efficienza – che altro. Ma tant’è, veniamo alle notizie vere. 



Primo, il Fmi si è accorto della crescita insostenibile dell’economia cinese. Miracolo dell’Assunta! Per l’istituto di Washington, infatti, la crescita cinese è ottenuta al costo di un indebitamento crescente che aggrava i rischi finanziari a medio termine. Ma va, chi lo avrebbe detto?! E, attenzione, perché al tema il Fmi ha addirittura dedicato un rapporto all’economia del Dragone, nel quale si parla esplicitamente di «traiettoria pericolosa» e si invita Pechino «a riequilibrare i fattori in direzione di una crescita più sostenibile». Strano, come mai il Fmi si accorge solo ora? Proprio adesso che la luna di miele tra Casa Bianca e Pechino pare essere terminata, con sul tavolo la questione nord-coreana e quella delle probabili sanzioni per furto di proprietà intellettuale? Chissà, sarà la solita coincidenza. 



Per il Fmi, grazie al sostegno dello Stato, «le prospettive della crescita cinese si sono rafforzate nel breve termine, ma a prezzo di maggiori rischi nel medio». A fronte di un rafforzamento dei piani infrastrutturali, del boom immobiliare e dell’aumento del credito, il Pil cinese è cresciuto del 6,9% su base annua sia nel primo che nel secondo trimestre contro il +6,7% del 2016. Ma questo risultato, hanno avvertito a Washington, potrebbe essere precario: «Il costo principale è un aumento importante dell’indebitamento pubblico e privato». Nonostante questo, però, il Fondo ha comunque mantenuto le sue previsioni di una crescita del Pil cinese pari al 6,7% quest’anno e al 6,4% nel 2018 e nel 2019. Ma per per raggiungere questi obiettivi, ha rilevato il Fmi, «Pechino dovrà mantenere l’attuale livello di investimenti pubblici e lasciar correre l’indebitamento privato… I precedenti internazionali suggeriscono che la bolla del credito in Cina segue una traiettoria pericolosa, che rafforza i rischi di un aggiustamento brutale o di uno sgonfiamento della crescita». 

Analisi, previsione o minaccia? Stando ai tecnici di Washington, «le fragilità si sono accumulate e se il governo cinese non agirà, non farà che ritardare l’inevitabile aggiustamento, rendendolo più doloroso». Per questo, nel finale, il Fmi raccomanda a Pechino di smetterla di fissare obiettivi di crescita quantitativi e irrevocabili e «di accelerare le riforme per rafforzare il ruolo del mercato». Insomma, gli Usa cominciano a muovere le pedine pesanti. 

Ma, tornando all’Europa, ecco l’unica vera notizia che conta – in ambito economico – e con la quale tg e giornali dovrebbero aprire le loro edizioni: il portavoce di Mario Draghi ha detto che il governatore «non rilascerà un nuovo discorso sulla politica monetaria al simposio di Jackson Hole, ma si focalizzerà sui temi dell’incontro, ovvero sulla discussione riguardo la dinamica dell’economia globale». Di più, la decisione di non parlare – di fatto – di tassi e fine del Qe nel discorso del 25 agosto prossimo, sarebbe in linea «con la decisione presa dal board Bce di luglio di rimandare qualsiasi discussione al riguardo al prossimo autunno». Come dicono i giovani, male male signori miei. Per il semplice fatto che da un mese a questa parte, ovvero da quando il Wall Street Journal lo aveva incoronato come l’evento economico dell’anno, tutto il mercato guardava a quel discorso come alla stella polare per orientarsi lungo il pericoloso cammino del tapering: e adesso? Perché questa sconfessione così clamorosa? Perché questo volersi chiamare fuori dalla disputa a poco più di una settimana dal simposio in Wyoming? Ripeto, brutto segno. Legato, di fatto, a due cose. 

Primo, non si sa come uscire dal Qe, più per la questione – con la quale temo di avervi ammorbato anche troppo – degli acquisti di bond corporate che quella di debito sovrano e compressione relativa degli spread. Secondo, l’euro troppo forte che, in caso di errata interpretazione da parte del mercato delle parole di Draghi, avrebbe potuto innescare il turbo di una dinamica rialzista che solo i venti di guerra coreani negli ultimi giorni avevano rispedito di poco sotto la soglia di 1,18. E il fatto che a generare tutta quella aspettative rispetto al discorso di Draghi sia stato il Wall Street Journal, dovrebbe farci riflettere: la strategia Usa di rafforzamento dell’euro in chiave pro-export statunitense era quindi preordinata e di lungo corso? Ovviamente, sì. E la Reuters stessa, dando conto della notizia, sottolineava che «la decisione di Draghi di evitare un discorso troppo politico a Jackson Hole potrebbe avere a che fare con il timore che i mercati possano interpretarne i contenuti come fecero con il discorso di Sintra dello scorso giugno, finendo sulle montagne russe perché letto nella maniera opposta da quanto voluto dalla Bce. Di fatto, la Banca centrale europea si è vista instillato un ulteriore senso di cautela da quell’evento». 

Già, i mercati. Sono loro il problema? O forse il fatto che, a oggi, la Bce detiene il 14% dell’intero mercato corporate bond europeo e il 40% del Pil dell’eurozona sotto forma di debito pubblico? È questo mercato che teme la Bce, ovvero lo stesso mercato che ha concorso grandemente a creare? E adesso, ovviamente, la scommessa sarà relativa a quando finalmente Mario Draghi dirà una parola chiara rispetto al Qe e al suo eventuale tapering. La maggioranza degli analisti scommette ora su ottobre: sarà davvero così o servirà altro tempo? Molto altro tempo. E come giustificare l’attesa, visto che formalmente l’eurozona viene da 17 trimestri di crescita consecutivi e con il tasso di occupazione che cresce più del previsto? Perché serve ancora Qe? Lo sappiamo tutti il perché, ma non si può dirlo chiaramente e pubblicamente, altrimenti l’intero castello di carte crollerà miseramente nell’arco di una settimana. Ecco perché qualsiasi media oggi non apra con la notizia del diniego di Draghi a Jackson Hole è da ritenersi virtualmente in malafede. E complice dello scempio delle Banche centrali di cui, come vi dicevo, ora cominciamo a pagare il dazio.