Ha ragione Giorgio Vittadini, siamo come Rocky 3 e dobbiamo riconquistare tutto. C’è un problema, però: la maggior parte del mondo politico, pensa che gli anni dal 2008 a oggi siano stati il nostro purgatorio per tornare sul ring e vincere, magari ritenendo quello 0,4% di crescita del Pil un anticipo della cintura da campione. Ma non è così e se non si dissolve una volta per tutto questo colpevole fraintendimento rischiamo solo di precipitare in una crisi ancora peggiore. Nel film, Rocky si gode gli allori di una vita da campione ormai fatta di incontri su misura, ma quando incontra Clubber Lang, affamato e rabbioso, subisce la peggior lezione della sua vita. Umiliato. Distrutto. Bene, ciò che noi abbiamo vissuto finora è stata la stagione degli incontri su misura e il sarto che ce lo ha permesso non è stato l’allenatore Mickey del lungometraggio, bensì la Bce con il suo programma di espansione monetaria. Di fatto, monetizzando il debito Ue. La crisi vera, l’incontro con Clubber Lang, arriva solo ora. Quindi, leviamoci dalla testa di essere usciti, rinati e in forma smagliante, dalla palestra puzzolente e cenciosa di Los Angeles dove Apollo Creed ci ha portati per ritrovare noi stessi e i nostri “occhi delle tigre”.
Lo dico per una serie di ragioni, le stesse che immagino troveranno spazio di discussione al Meeting che si apre dopodomani a Rimini. E partiamo proprio da dato del Pil, leggibile ovviamente in maniera diametralmente opposta se lo si guardi dalla maggioranza o dall’opposizione, ma incontrovertibile in un dato: un pochino di ripresa c’è, ma non per tutti. E non lo dice il sottoscritto: «Finalmente il peggio è definitivamente alle nostre spalle, tuttavia è una ripresa che non coinvolge ancora tutto il Paese; basti pensare al piccolo commercio le cui vendite erano in calo dello 0,6% nei primi 6 mesi dell’anno o all’artigianato dove le imprese attive, a fine giugno 2017, risultavano in calo dell’1,2% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno». È stato questo il commento del coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, dopo aver letto i dati pubblicati mercoledì dall’Istat sull’andamento del Pil nazionale nel secondo trimestre del 2017.
«Se si può affermare che la domanda interna è ripartita – conclude Zabeo – questa ripresa sta interessando prevalentemente le medie e grandi imprese manifatturiere, attive sui mercati internazionali che stanno beneficiando delle misure agevolative introdotte dal governo per chi investe. Gli artigiani, i piccoli commercianti e tutto il popolo delle partite Iva che, invece, vivono quasi esclusivamente dei consumi delle famiglie, ancora lontani dai livelli pre-crisi, rischiano di non cogliere questo risveglio della nostra economia». Ed ecco che tornano i miei mantra, stucchevoli quanto volete, ma non più ignorabili: l’euro ieri è sceso di poco sotto 1,17 ma rimane forte, troppo forte per una ripresa che abbia nell’export il suo traino. Quindi, se si resterà in questo ordine di cross o si andrà in rialzo delle quotazioni, saranno proprio quelle industrie medie e grandi che operano sul settore internazionale a pagare lo scotto e, quindi, potenzialmente a perdere il ruolo di driver della crescita.
Secondo, la Bce. Ieri vi ho parlato della decisione di Mario Draghi di non toccare argomenti monetari nel suo discorso del 25 agosto a Jackson Hole, il simposio annuale della Fed e di quanto questo pesi psicologicamente sui mercati: i giornali di ieri hanno pressoché ignorato la notizia, ma non i mercati. Direte voi, l’euro però è calato? Già, ma perché, furbescamente, dalle minute dell’ultimo incontro del board Bce è stato estrapolato un concetto molto mirato: ovvero, i timori espressi in sede Eurotower per un tasso di cambio in overshooting in futuro. Insomma, timore per l’euro forte. Non sono stato quindi un visionario, nelle ultime tre settimane? Ovviamente, un concetto simile non può che portare a un deprezzamento, perché solo un board di pazzi penserebbe ad alzare i tassi con un cambio in crescita penalizzante. Quindi, tapering rimandato e ancora Qe: detto fatto, l’euro scende sotto 1,17 sul dollaro. Ma sono solo mosse tampone, tanto più che la Fed non resterà certo a guardare. Anzi. Proprio mercoledì sera, infatti, sono state pubblicate anche le minute dell’ultima riunione del Fomc e il quadro appare abbastanza chiaro, nel suo attendismo tattico.
La Federal Reserve mantiene infatti aperta la porta «in una delle prossime riunioni» a una riduzione del proprio bilancio – al momento stabile a 4.500 miliardi di dollari – ma mostra anche qualche segno di preoccupazione per una inflazione, la quale «potrebbe rimanere al di sotto del 2% per più di quanto attualmente previsto». Timori che impattano anche sulla tempistica relativa al prossimo rialzo dei tassi e che emergono con chiarezza dalle minute della riunione: il mese scorso il costo del denaro era rimasto invariato tra l’1 e l’1,25%, ma la Fed aveva dichiarato di aver intenzione di procedere con la terza stretta del 2017 entro la fine dell’anno. Il deludente andamento dell’inflazione in luglio (+0,1%) aveva però convinto il mercato che l’opzione di un giro di vite in settembre sarebbe stata accantonata. Anche perché il mese prossimo dovrebbe essere avviato il processo di normalizzazione del bilancio, gonfiato negli anni della crisi dall’acquisto di Treasury e bond ipotecari. D’altra parte, sostengono le colombe della Fed nelle minute dell’ultimo summit, con i prezzi al consumo al palo, la banca centrale «può permettersi il lusso di essere paziente in materia di tassi».
William Dudley, presidente della Fed di New York, aveva già sottolineato qualche giorno fa come il dato sull’inflazione potrebbe non raggiungere l’obiettivo di crescita annua del 2% (non centrato da anni) per 6-10 mesi alla luce dei deboli dati recenti. A suo modo di vedere, un mercato del lavoro dove per i datori di lavoro diventa più difficile trovare personale specializzato e un dollaro debole aiuteranno a spingere l’inflazione verso l’alto. Per i falchi c’è invece il rischio che – a fronte di un mercato del lavoro in forte crescita e di prezzi dell’azionario vicini ai record – l’inflazione balzi improvvisamente sopra il target di crescita annua del 2%: «Costerebbe molto invertire un tale trend», si legge nel documento. Insomma, tutto e il contrario di tutto.
D’altronde, Washington attendeva indicazioni al riguardo da Mario Draghi. Il quale, però, si è sfilato. Facendo sorgere non pochi dubbi. Perché anni di incontri su misura con pugili a fine carriera garantiti dalla Bce ci hanno regalato quanto rappresentato nei grafici più in basso: ovvero, un mondo che non può esistere in una realtà di mercato. E non parlo di liberismo, bensì anche di economia sociale di mercato, dove spread ai minimi come quello raggiunto dal biennale spagnolo non possono convivere con tassi di disoccupazione giovanile simili, in calo ma ancora sideralmente alti e vicini ai massimi record.
È distorsione pura. Ed è quella distorsione che ha reso possibile il +0,4% che dall’altro giorno occupa le prime pagine dei giornali: ma se Draghi stesso non osa svelare le carte a Jackson Hole, come possiamo dare per ipotecato quel risultato e l’ambiente monetario che lo ha reso possibile? Non sarà che l’ingresso nella palestra del dolore, della sofferenza e del sacrificio sia davanti a noi, in autunno e non dietro le spalle come troppi ottimisti pensano? Tanto più che il vero mezzo miracolo compiuto da Draghi è stato quello di andare all-in come un pokerista nell’azzardo del Qe, ovvero aprendo all’acquisto di bond corporate che hanno liberato miliardi e miliardi di euro di finanziamento a costo zero per le grandi imprese Ue, le stesse che la Cgia di Mestre vede come beneficiarie della ripresa – in parte anche per le politiche di governo – e quindi traino del Pil positivo del secondo trimestre. Ma se Draghi blocca, cosa succede? Finanziarsi sul mercato costerà di più, tanto che ieri a Piazza Affari il listino è stato zavorrato proprio da nuove tensioni sul settore bancario.
È vero, abbiamo perso tutto e occorre ricominciare daccapo, ma guardando in faccia la realtà vera, non quella modellata e confezionata: la ricreazione è finita adesso, ci aspettano lunghe ore di lezione. Qualcuno, invece, pensava che fosse suonata la campanella delle vacanze estive. Attenti a guardare agli Stati e non alle Banche centrali, si rischia un ko.