Nel secondo trimestre del 2016 il Pil faceva registrare un +0,8% di crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Nel secondo semestre del 2017, dato appena comunicato dall’Istat, lo stesso indice statistico – che è sempre una media – fa registrare il +1,5% (tendenziale). Questo dato deriva dalla crescita iniziata a partire dal secondo trimestre dell’anno scorso, quando è stata (a livello congiunturale) dello 0,1%, e poi dello 0,3% nel terzo e dello 0,4% nel quarto e ancora nel primo trimestre del 2017 dello 0,4%, sino a giungere a un altro +0,4% del secondo. Il tutto – composto e destagionalizzato – crea la cifra dello sbandierato +1,5%.
Teniamo i nervi saldi. Non c’è bisogno della laurea, soprattutto di quelle di oggi, per capire ciò che dal buon senso si ricava, ossia che la ripresa tecnicamente esiste, ma è debolissima e non ci fa affatto superare i punti di Pil che abbiamo perso dalla crisi del 2007 e in generale dal rallentamento che è iniziato nella sostanza nella seconda meta degli anni Novanta del Novecento. È questo che ci deve preoccupare, non l’ennesima filastrocca del distacco dalla Germania e dalla Francia.
Le divergenze sono in atto tra le nazioni europee già da una ventina d’anni e l’avvento del sistema a cambi fissi con moneta unica non ha fatto che farle aumentare sempre più. Il tutto in una spirale deflattiva (non a caso si discute tra persone colte di deflazione secolare, rifacendosi al grande e poco noto Hansen, il quale già prevedeva ciò che sarebbe successo in tempi non sospetti, ossia gli anni Trenta sempre del Novecento, nella Sua America del Nord). È la deflazione il problema: se i prezzi scendono e non si alzano che impercettibilmente non può esserci crescita perché i profitti non crescono abbastanza da giustificare gli investimenti. Sono i profitti, ossia la loro prevedibile attesa, a creare gli investimenti e non il contrario.
La teoria giusta non è in Keynes, ma in Kalecki, in Kaldor e in Minsky. Ma questi economisti nelle università della statistica di Shangai non li legge più nessuno. Fa eccezione Cambridge che è più tuttavia e per fortuna terza nella suddetta statistica seguita di lì a poco da Oxford. Ma in Italia si legge non l’inglese, ma il nordamericano di Chicago e allora si cade nell’abisso di oggi, quando si parla di inflazione con prezzi e crescita attorno all’1%.
A proposito: Draghi ha bruciato per sostenere le banche europee, e ha fatto benissimo, miliardi di euro perché doveva raggiungere un famoso 2% (o mi sbaglio?). Ma questo 2% non lo si raggiunge?rà mai solo per via monetaria. Si salverà solo il credito creandolo artificialmente. Meglio di nulla direte, ma è una strada pericolosissima e veramente rischiosa. Capiamoci: se l’ascensore si ferma e rimbalza e non precipita più siamo tutti contenti, ma la ripresa è un’altra cosa. Tanto più se guardiamo al dato tendenziale. Qui c’è il particolare pascaliano che cela il diavolo. Una serie di rimbalzi cosi duraturi ma sempre piccoli dimostra che gli investimenti che si determinano sono incrementali e modestissimi e trainati non tanto dall’attesa del profitto, quanto invece da uno stillicidio di incentivi e dalle manovre per assumere un pugno di giovani e con il marchio 4.0 fare un qualche innovazione non paradigmatica.
Coloro che mi leggono sanno poi che il marcio risiede a parer mio nell’applicazione da parte della Germania delle teoricamente deboli ma dannosissime prediche dell’ordoliberismo, che attraverso il Fiscal compact sono state imposte a tutta l’Europa trascinandola nella deflazione. Essa non fa paura ai tedeschi ordoliberisti perché sono un’economia export lead grazie alla competitività idiosincratica dei prodotti. Ma per sistemi a bassa innovazione compensata da svalutazioni competitive è disastrosa quando queste ultime sono impossibili con moneta unica. Si ricorre – e l’Italia è ormai maestra in questo – alle svalutazioni interne, ossia ai bassi salari grazie alla liberalizzazione del mercato del lavoro e all’esercito industriale di riserva che veniva un tempo dal Sud Italia e ora dal Sud del mondo in spregio a ogni ragionevolezza.
Quindi mi domando: ma dove sta la crescita tendenziale? Mi si dice che stia nell’industria ed è pur vero che siamo ancora un grande sistema industriale secondo in Europa e quarto nel mondo. E di ciò oggi si gioisce. Ma nel contempo le esportazioni scendono e si importa sempre più proporzionalmente all’export.
Ci si metta d’accordo. Bisognerebbe iniziare a chiamare le cose con il loro nome. A cominciare dal dire che l’1% non è inflazione ma deflazione. E poi cominciando a ripensare agli investimenti: che essi scaturiscano dal profitto e non dai sussidi. Senno si ricorra alla mano pubblica. Qualche miliardo di debito in più, se serve a stimolare la crescita, con il ritorno allo Stato imprenditore: si agisca contravvenendo alle tecnocrazia oligarchica europea. Lo si faccia! È l’ora giusta. Guardate ciò che succede in Germania. La signora Merkel e il signor Schauble, pur in clima elettorale, difendono Draghi dalle staffilate della Corte Costituzionale di Karlsruhe che s’era mossa su richiesta dell’ex fondatore di Afd e del leader dalla Csu e del professor Kremer, distinto giurista ordoliberista a oltranza. Eppure il signor Draghi era un arcinemico. Ci sarà una ragione per l’improvviso amore!
Per capire bisogna guardare a ciò succede nel sistema bancario, infrastrutturale e industriale tedesco e ci si accorgerà che suona l’allarme anche per la Germania (Air Berlin insegni con il prestito ponte statale). Pensate un po’ che cambiamento. Forse allora il pericolo si avvicina, altro che crescita, altro che far salti gioia! Il Primo ministro Gentiloni è pensoso e mi pare il più saggio. Sconsolato, isolato e confuso tuttavia.