Sale lo spread (il rendimento del Bund è sceso allo 0,41% e quello del Btp decennale al 2,03%, con il differenziale a 163,921 punti base) e salgono anche le quotazioni dell’oro che scambia sopra 1.290 dollari l’oncia. Si chiama paura, corsa a beni rifugio: Barcellona? No. Di Barcellona sul mercato non frega proprio nulla a nessuno: a fronte di quanto sta accadendo nel mondo, bisognerebbe fare una piega per un attentato che – formalmente – avrebbe impiegato un commando di 12 uomini capace di creare danni che si sono limitati all’uso indebito di un furgone? Rischiamo la guerra nucleare tra Usa e Corea e le Borse dovrebbero aver paura di cinque cinture da kamikaze finte? C’è paura per una serie di motivi.
Ad esempio, il cluster di Hindenburg Omen che si è mosso nelle ultime due settimane, segnale tecnico che normalmente anticipa di 90 giorni un crash azionario e che ogni volta che è stato ignorato, ha portato con sé danni. Ma, soprattutto, c’è il finale di partita fra le Banche centrali. «L’azionario continua a calare e questo ha scatenato gli acquisti sul mercato obbligazionario», ha osservato Guy Lebas, analista di Janney Montgomery Scott. E un fattore dietro questo fenomeno è proprio l’ambiguità riguardo il futuro sentiero dei tassi d’interesse della Fed: le minute dell’incontro di luglio mostrano come il Fomc sia diviso, con alcuni banchieri che preferiscono essere più pazienti circa gli incrementi del costo del denaro, e altri che hanno commentato che l’inflazione possa arrivare a livelli al di sopra del target del 2%. Insomma, come vi dico da tempo, Washington puntava tutto sul decisionismo di Francoforte. Scommessa mal riposta.
Ieri l’euro si è confermato a quota 1,1746 dollari, dopo però il brusco movimento di giovedì che ha portato la moneta unica sotto quota 1,17 per le preoccupazioni espresse proprio dalla Bce, nei verbali dell’ultima riunione di luglio, per i rischi di un eccessivo apprezzamento della valuta unica: questi timori hanno alimentato tra gli operatori la convinzione che Francoforte non sia ancora pronta a procedere verso una normalizzazione della politica monetaria con la fine degli acquisti di titoli di Stato e successivi aumenti al costo del denaro. Insomma, per usare un termine poco garbato ma molto esaustivo, nessuno comincia più a capirci nulla. E qual è l’unico indicatore credibile, quando impera il caos? L’oro.
Ma attenzione, perché sempre più traders stanno vivendo di una convinzione nuova: ovvero che quella che stiamo attraversando è la classica fase in cui si sta male, prima che la medicina faccia effetto e si torni a star bene. E la malattia ha un nome e un cognome: Donald Trump. Più dell’Isis, più di Kim Jong-un, è il presidente Usa il faro di riferimento che i mercati stanno auto-decidendo di darsi: quando se ne sarà andato dalla Casa Bianca, tutto tornerà a splendere. Direte voi, mancano poco meno di quattro anni, hai voglia a patire: no, manca meno. Molto meno. Almeno questi sono i calcoli della corporate America e di Wall Street. Basti vedere cosa sta accadendo attorno al tema non esattamente urgentissimo ed esiziale dei monumenti legati al passato confederato e segregazionista degli States, nuova frontiera dell’attacco frontale contro la Casa Bianca: talmente tante sono state le defezioni tra i grandi manager dell’industria Usa che Donald Trump, onde evitare figuracce ulteriori, ha deciso di sciogliere i due consigli che avrebbero dovuto affiancare la Casa Bianca nelle scelte di politica economica.
Un ammutinamento senza precedenti, otto manager dimissionari dai forum presidenziali in due giorni dopo i commenti via Twitter con i quali il presidente chiamava in causa anche i gruppi anti-razzisti per le violenze di Charlottesville dello scorso fine settimana. Ieri, poi, è stato il turno di James Murdoch, presidente della 21st Century Fox e figlio del tycoon Rupert Murdoch, il quale si è unito al coro di critiche nei confronti del presidente americano, Donald Trump, proprio sulla tragedia di Charlottesville in Virginia. Di più, Murdoch jr. – che non fa parte dei consigli consultivi della Casa Bianca – ha seguito l’esempio di Tim Cook, il numero uno di Apple, e non si è limitato a criticare le reticenze di Trump sui suprematisti bianchi, ma ha donato un milione di dollari all’Anti-Defamation League: «Quello a cui abbiamo assistito la settimana scorsa a Charlottesville e la reazione del presidente degli Stati Uniti, ci preoccupa in quanto americani e come popolo libero… Non posso credere che avrei dovuto scrivere questo: alzare la voce contro i nazisti è essenziale, non esistono nazisti buoni. E questo vale anche per gli uomini del Klan o per i terroristi».
E il segnale, in questo caso, è di quelli che pesano, perché Rupert Murdoch è sempre stato un grande sostenitore di Trump, nonostante i suoi giornali, a partire dal Wall Street Journal, abbiano pesantemente attaccato il presidente Usa. Il board editoriale del quotidiano economico, in un pezzo intitolato I Trump e la verità, ha palesemente lamentato la mancanza di trasparenza da parte dell’amministrazione. Per il Journal, «la realtà di Washington distruggerà Trump, la sua famiglia e i suoi affari a meno che non cambino la loro strategia nei riguardi dell’indagine sulla Russia. E non gli rimane molto tempo per farlo». E ancora, tanto per aggiungere benzina sul fuoco, lo scrittore Tony Schwartz ha twittato che «Trump si dimetterà prima che l’indagine sui legami tra la sua campagna e la Russia non gli lasci scelta. Il cerchio si sta chiudendo a enorme velocità». Di più: «Trump si dimetterà e dichiarerà sconfitta prima che Mueller (il procuratore speciale che indaga sul Russiagate ndr) e il Congresso non gli lascino scelta. La presidenza Trump è di fatto finita», ha previsto. Per poi concludere: «Sarei sorpreso se sopravvivesse fino a fine anno, più probabile che si dimetta in autunno, se non prima».
E attenzione, perché lunedì cominciano le annuali manovre congiunte di esercito Usa e sudcoreano, di fatto due settimane in cui mezzi militari delle due nazioni circoleranno a distanze di missile da parte di PyongYang: i futures già ieri segnalavano tensione geopolitica crescente sui mercati, oltre a un palese trend di focus sulla Casa Bianca e gli sviluppi politici: questo grafico ci mostra un andamento in tandem dei due principali indici Usa, sintomo che tutti sono con le antenne dritte in attesa che accada qualcosa dalle parti di Pennsylvania Avenue.
Ormai tutto dipende dal futuro di Donald Trump, sarà lui a direzionare i mercati e le scelte delle Banche centrali: ovviamente, nel più classico dei giochi delle parti, visto che questi ultimi stanno facendo di tutto per far deragliare l’amministrazione del tycoon statuitense, creando nel contempo le condizioni per un’esplosione controllata della bolla. I media ci dicono di aver paura dell’Isis, ma è dei banchieri centrali che dobbiamo aver timore, perché la decisione ultima sulla necessità di un conflitto in piena regola la prenderanno loro, alla bisogna: se si riuscirà, con mezzi monetaristi più o meno ordinari, a calciare ancora per un po’ in avanti la lattina, forse Trump vedrà fiorire in primavera il “Giardino delle rose”, altrimenti potremmo doverci preparare a un inverno con l’interregno di Mike Pence, con quanto ne consegue in fatto di avventure geopolitiche in giro per il mondo. In quel caso, sarà l’Iran il bersaglio, non la Corea del Nord.
I mercati attendono, pur non capendoci più nulla, almeno sanno dove guardare per capire quanto forte sarà il botto. Cosa vi avevo detto, lo scorso novembre, rispetto alla necessità di Wall Street e comparto bellico-industriale di mettere alla Casa Bianca un capro espiatorio perfetto per fronteggiare la nuova crisi e permettere alla Fed di tornare a stampare per un po’?