Il rafforzamento dell’euro nei confronti del dollaro dall’inizio dell’anno è uno degli argomenti caldi per i mercati finanziari che si chiedono quale possa essere il livello di cambio dei prossimi mesi e anni. A questo proposito vale la pena sottolineare due notizie uscite negli ultimi giorni. La prima è contenuta nella pubblicazione dei verbali della riunione della Bce di fine luglio in cui si parla di “preoccupazioni per un rafforzamento eccessivo dell’euro in futuro”. Il tasso di cambio è già passato da 1,05 di inizio anno agli attuali 1,175 con un danno per le esportazioni da Europa a Stati Uniti di circa il 10%. Un rafforzamento ulteriore da questi livelli, sopra 1,20, farebbe diventare il conto ancora più salato. La seconda notizia è una dichiarazione del ministro delle Finanze tedesco; Schauble ha polemizzato contro la Corte costituzionale tedesca secondo cui le politiche espansive della Bce potrebbero essere incostituzionali: “Non condivido questa opinione e credo che la Bce stia implementando il suo mandato”.
Le politiche espansive della Bce sono quella “cosa” che nel giro di tre mesi ha risolto per sempre i problemi dello “spread” e del debito statale italiano e il cui ritardo, su tutte le altre banche centrali globali, è stato usato per tirare una mazzata all’Italia e alla sua economia nel 2011; il debito su Pil italiano come tutti sanno è salito grazie alla cura Monti. La questione sembra per tecnici, ma non lo è ed è in realtà abbastanza semplice. Gli Stati Uniti sembrano aver deciso che le politiche degli ultimi decenni in tema di rapporti commerciali sono più dannose che utili. L’America di Facebook. Google e Apple va bene per qualche milione di persone super pagate, ma va male per il resto della popolazione, in America sono 350 milioni, che infatti vota l’impresentabile Trump dopo otto anni di Obama. I buoni posti di lavoro finiscono in Cina contro cui l’America non può competere perché i diritti dei lavoratori non esistono e perché lo Stato interviene o in Germania e dintorni che invece gioca con un tasso di cambio che non è il suo e soprattutto molto più debole di quello che si meriterebbe se non fosse per l’Europa.
Sarà un caso, ma dall’insediamento di Trump il dollaro ha smesso di rafforzarsi e anzi è sceso sull’euro del 10%. Trump, da un punto di vista meramente economico, è espressione dell’industria americana ed è stato votato da quelli che non si sono ritrovati né negli articoli sui successi dell’economia americana, né nelle statistiche sul mercato del lavoro che raccontano un mondo molto migliore di quello reale. Sono quelli che avrebbero bisogno di lavori “medi”, tendenzialmente sicuri e decentemente pagati. Questo tentativo americano di riequilibrio dei rapporti commerciali, che prescinde da Trump, è una bruttissima notizia per l’Europa. La quale ha distrutto la domanda interna in metà dell’area euro con un’austerity folle e in malafede e che non ha equivalenti in nessuna delle altre macro aree economiche, Giappone, Stati Uniti o Cina. Anche in Germania le infrastrutture cadono a pezzi e i lavoratori si lamentano di non essere pagati abbastanza. Il modello economico europeo-tedesco è possibile solo se le esportazioni tirano alla grande, dato che la domanda interna è scomparsa sia dal lato dei consumatori, sia dal lato statale con i governi che non possono spendere neanche per i terremoti. Far perdere il 10% alle esportazioni e in prospettiva magari il doppio e passa se l’euro si posizionasse tra 1,2 e 1,3 è di per sé un brutto colpo; figuriamoci poi se a qualcuno viene in mente di alzare i dazi in alcuni settori.
La Germania su questa vicenda è attentissima e oggi difende la Bce perché in realtà sta difendo se stessa. Un’altra crisi nell’Europa periferica, indotta ad arte, potrebbe ottenere lo scopo di un indebolimento del cambio, ma ormai si sta scherzando con il fuoco e oltretutto non è detto che fuori dall’Europa siano tutti così stupidi da non capire il giochino. La Bce in questa fase fa gli interessi di tutti, ma anche noi concordiamo con Schauble quando dice che la Bce sta esaurendo gli strumenti a disposizione per “attuare il compito infernale di una politica monetaria per così tanti Paesi diversi”. L’euro e le sue istituzioni non sono degli europei, ma dei Paesi membri più forti che ne condizionano l’operato per i propri interessi.
L’unica possibilità perché l’unione monetaria funzioni per tutti è che ci sia una redistribuzione interna come per decenni è accaduto in Italia con le tasse delle regioni più ricche che finanziavano quelle più povere. Questo processo può concludersi felicemente, sempre ammesso che tutti lo vogliano, solo se viene condotto tenendo conto delle esigenze di tutti; se nel frattempo si obbligano gli stati deboli ad adeguarsi a un modello che non è per loro oppure se nel frattempo si riaggiustano gli equilibri perché gli stati più forti possono cambiare le regole, l’unica conclusione è che questo processo produca dei vincitori, gli stati forti, e dei perdenti, quelli deboli, che devono competere con la stessa valuta, la stessa banca centrale, ma tasse più alte e nessuna domanda statale. Un’unione monetaria così non è neutrale, ma si conclude con delle zone che si avvantaggiano a discapito delle altre che invece senza sarebbero state, a parità di condizioni, meglio.
Oggi la Germania è contro il rafforzamento dell’euro e va bene anche a noi, ma la premessa non cambia. Il numero di azioni, come i voti, dentro le istituzioni europee non si contano, ma si pesano e chi può le usa per i propri interessi contro i diretti concorrenti che tendenzialmente sono altri partner europei. La virata della Germania sulla Bce non è un atto di generosità nei confronti del Sud Europa, ma il tentativo di salvare le proprie esportazioni verso i mercati che non sono mai stati colpiti dalla sua austerity.