Il dato sul debito pubblico italiano a giugno (2.281,4 miliardi, 2,2 in più rispetto a fine maggio) non lascia scappatoie. In termini assoluti è un dato record e la sua crescita percentuale negli ultimi cinque anni (arco temporale politicamente significativo nella lunga vigilia elettorale) è stata del 15 per cento. A fine 2012 (il secondo anno peggiore della Grande Recessione italiana, -1,45%) il rapporto debito/Pil si assestò a 123,1%. Il parametro-Ue da allora è ulteriormente peggiorato: fino a 134,8% nel 2015. Neppure gli accenni di ripresa zero-virgola hanno riportato il valore al di sotto della soglia del 130%, rilevante per Bruxelles (ancora sopra 131 la stima 2017 e sopra 130 nel 2018). Certamente – ma quella del Bollettino Bankitalia è stata solo l’ultima conferma – la mancata ripresa ha sì mantenuto basso il denominatore, nel frattempo tuttavia anche il numeratore è rimasto fuori controllo: lungi dall’essere almeno governato nella crescita tendenziale.
L’analisi “in sedicesimo” dell’andamento mensile maggio/giugno 2017 può sembrare banale, ma proprio per questo non è priva di indicazioni. Aumenta il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche (8,4 miliardi): pesano soprattutto quelle centrali (4 miliardi), mentre è neutro l’impatto dei conti degli enti previdenziali e cala il fabbisogno degli enti locali. E mentre il debito sale scendono gli incassi per l’Erario nel primo semestre dell’anno (-5,8%) anche se il dato va depurato dall’effetto-slittamento delle scadenze per il versamento di alcune imposte.
Nel “non detto” del Bollettino Bankitalia c’è naturalmente il “contributo zero” alla voce “privatizzazioni”, mentre opportuna segnalazione viene data al quasi-minimo storico dello stock di debito pubblico detenuto da investitori non italiani. Il primo dato è il risultato di una precisa scelta politica dell’ultimo governo Renzi (bloccare la seconda tranche di collocamento Poste e l’offerta iniziale di azioni Fs), mentre il secondo è sicuramente una spia d’allarme: benché la stanchezza generalizzata dei mercati per i bond governativi e corporate sia più un fatto che un giudizio nel corso della lunghissima archiviazione dei vari “quantitative easing” da parte dei banchieri centrali. Un periodo – quello assicurato dalla Bce di Mario Draghi anche al suo Paese d’origine – che l’Italia ha fatto male a considerare “interminabile”: avrebbe fatto invece meglio a profittarne per mettere sotto controllo il suo debito. Cosa che il prossimo governo non potrà non fare: prevedibilmente obbligato sia dalla “nuova Europa” in cantiere, sia dalla fine dei tassi zero sui mercati.