Un vero e proprio equilibrista. Mario Draghi può stare tranquillo: gli andasse male come salvatore politico dell’italica patria o come conferenziere, un futuro nel mondo circense è assicurato. Il discorso che il numero uno della Bce ha tenuto ieri al Lindau Nobel Laureate Meeting in corso a Lindau, Germania, dedicato al rapporto tra ricerca e policy making, è stato un capolavoro assoluto del dire tutto e niente. Con punte di assoluto imbarazzo, quando la difficile arte dell’arrampicarsi sugli specchi lo ha portato a vertici come la seguente supercazzola, degna del compianto Conte Mascetti di Amici miei: «La riscoperta della nozione che le politiche possano avere un ruolo nel coordinare le attese dei privati in momenti di grande incertezza ha avuto un ruolo di primo piano nella transizione verso l’attuale mondo post-crisi». Bellissima frase, peccato che – in concreto – non voglia dire proprio niente. Ma niente davvero. Quantomeno, niente che interessi ai mercati. I quali non hanno mai avuto tanto le antenne dritte come ieri mattina, visto che l’intervento di Draghi precedeva quello attesissimo che il banchiere centrale terrà negli Stati Uniti, in occasione del simposio della Federal Reserve in programma a Jackson Hole da oggi al 26 agosto. 



E questo è il problema: avesse lasciato suspense rispetto a quanto dirà in Wyoming, il discorso di ieri mattina sarebbe stata la solita “sgambata” nel mondo dello scibile monetarista, ma, avendo il portavoce del numero uno della Bce già detto che all’appuntamento della Fed non si toccherà la questione del tapering del programma di Qe dell’Eurotower, ieri mattina l’attenzione morbosa di tutti era concentrata anche sulle virgole. E lui, novello Alberto Tomba, ha cercato di dribblare al meglio tutti i paletti dello slalom. 



Parlando degli strumenti a disposizione delle banche centrali, Draghi ha sottolineato che «la forward guidance è un’opzione utile, tanto che una recente ricerca ha messo in evidenza come la sua efficacia possa essere migliorata se viene combinata con altre politiche monetarie non convenzionali». Mentre rispetto al Quantitative easing ha ricordato come proprio le ricerche abbiano dimostrato «il successo di queste politiche nel supportare l’economia e l’inflazione, sia nell’eurozona che negli Stati Uniti». Ora, mi chiedo: quali ricerche? Non basta la realtà che abbiamo davanti agli occhi? La Fed è disperata, perché da un lato ha dati macro taroccati da anni di politiche di revisione al rialzo sotto Obama e dall’altro alcuni indicatori, vedi le proiezioni inflazionistiche o le attese salariali, che invece vorrebbero altro stimolo. O, quantomeno, non altri aumenti del costo del denaro. 



Il Giappone ha speso un capitale per ritrovarsi, due settimane fa, a spostare in avanti di un anno – da marzo 2018 al 2019 – il raggiungimento dell’inflazione al 2%, avendo disintegrato nel frattempo il mercato obbligazionario nipponico, tanto che lo Stato è ormai il compratore assoluto, di prima e ultima istanza. La Bce stessa, poi, è la riprova del fallimento della forward guidance proprio con il suo governatore: se tutto fosse così apposto e funzionale, perché da una settimana Mario Draghi starebbe giocando a nascondino con i mercati? Di più, perché il board negherebbe la data dell’inizio del tapering? Semplice, perché quella politica non è solo fallimentare a livello di obiettivi, ma, anche, di apporto di elementi di trasparenza verso chi opera. E Draghi lo sa. Per questo ieri l’ha presa alla larga. Molto alla larga. 

Ritornando infatti sull’annuncio relativo al programma Omt (Outright Monetary Transactions), quello del celebre whatever it takes del 2012, il presidente ha infatti evidenziato come l’idea fosse che «rompendo il collegamento tra le percezioni e la pressione al ribasso sull’attività economica, le Omt avrebbero aiutato a ripristinare la corretta trasmissione delle politiche monetarie attraverso l’intera eurozona e a sostenere la ripresa». Rispetto al fatto che tale programma non sia mai stato effettivamente usato, Draghi ha rimarcato come «il fatto che la Bce avesse lo strumento a disposizione è stato sufficiente a fissare le attese a una buona riuscita». In definitiva, Draghi ha concluso che dall’evoluzione che ha interessato nel corso degli anni il rapporto tra ricerca e policy making possono essere tratte diverse lezioni: «Gli shock improvvisi spesso rendono visibili le falle nel nostro quadro di policy e sfidano il potere esplicativo delle teorie esistenti. Una risposta in termini di policy che ha le sue basi nella è meno incline a essere indebolita dal compromesso politico e a essere spiegata al pubblico». Insomma, stando a Draghi e all’ottimo resoconto che l’Agi ha fatto del suo intervento, l’Omt è stato il corrispettivo finanziario del Muro di Berlino, visto che la deterrenza nucleare rappresentata da quest’ultimo ha garantito 70 anni di pace in Europa, nonostante Enrico Letta ancora creda che sia stata l’Ue con le sue leggine stortignaccole a farlo. In parte è vero, negarlo sarebbe stupido: chi, davanti a una banca centrale pronta a tutto e con i precedenti di Fed e Bank of Japan, sarebbe andato a cedere il bluff? Solo un suicida, nessuno attacca front-load la Bce, sapendo che sta combattendo con tutte e due le mani legate dietro la schiena. 

Il problema, la noticina che Draghi ha evitato di citare, la postilla che sovrintende a tutte le fregature, c’è però ed è stata svelata da Draghi stesso lo scorso marzo, quando ha annunciato l’ampliamento del programma di acquisto ai bond corporate: in quel momento, ha aperto il vaso di Pandora stesso della limitatezza potenziale delle manovre espansive come quelle che stiamo vivendo. Non ha ampliato la platea strategicamente, usando un’opzione in più perché la riteneva giusta in quel momento, ma per obbligo e disperazione: qualcuno, a inizio anno, aveva inviato segnali chiari. Ovvero, stiamo per venire a vedere il bluff. Casualmente, si amplia il Qe. E nella maniera sì più efficace, ma anche più palesemente emergenziale: fornire direttamente finanziamento cash, a costo zero, sicuro e rapido alle grandi aziende europee, ma anche svizzere e statunitensi con filiali nell’eurozona. Si annunciava un nuovo passo verso la vittoria, era invece una mossa per non crollare. E adesso? 

«Quando il mondo cambia come ha fatto dieci anni fa, le politiche, in particolare quelle monetarie, devono essere modificate. Un cambiamento che richiede una valutazione delle nuove realtà onesta e senza pregiudizi, che non sia gravata dalla difesa di paradigmi precedenti che hanno perso il loro potere esplicativo», ha dichiarato ieri Draghi, a detta del quale «dobbiamo essere consapevoli dei vuoti che permangono nella nostra conoscenza». Quando un banchiere centrale, oltretutto uomo Goldman, comincia ad attaccarsi allo sconosciuto, all’imponderabile e alla filosofia, occorre preoccuparsi. E non poco. Anche perché l’attivazione del piano di acquisti corporate ha sì garantito che la barca non affondasse e che, anzi, il suo stato di salute formale apparisse roseo (sempre ieri la stima flash del PMI manifattura della zona euro in agosto si è attestata a 57,4 da 56,6 di luglio, al di sopra del consenso a 56,3. Il preliminare del Pmi servizi è invece risultato leggermente al di sotto delle stime a 54,9 da 55,4 luglio, a fronte di un consenso per 55,4), ma ha anche permesso al dollaro di deprezzarsi del 12% sull’euro da inizio anno. E ieri, complice il combinato fra le parole di Draghi e il PMI, la nostra valuta è ritornata saldamento sopra 1,178, spinta al rialzo anche dalla debolezza infusa al biglietto verde dalla parole di Donald Trump, il quale ha ribadito che «in un modo o nell’altro costruiremo il muro» sul confine messicano. «Avremo il nostro muro», rincarando la dose e indicando come l’America abbia votato «per il controllo dell’immigrazione clandestina». 

Non basta, ha persino minacciato di bloccare l’attività amministrativa (Shut down the government) per ottenere i finanziamenti necessari. Di certo, il dollaro non brinda. «I dati ci dicono che lo scenario economico sta chiaramente migliorando», ha dichiarato a CNBC Christel Aranda-Hassel, capoeconomista per l’Europa alla Mizuho International, pronosticando che la Bce probabilmente rialzerà le sue previsioni economiche a settembre: «Ma allo stesso tempo, il rafforzamento dell’euro ha esercitato una pressione al ribasso su altre previsioni-chiave, come l’inflazione». Cosa dirà, a questo punto, Mario Draghi a Jackson Hole? Davvero, dopo la prova da maestro di ieri, riuscirà a mantenere la linea della neutralità? Perché se Draghi dovesse rilasciare anche i più timidi segnali sul prossimo tapering del Qe o il mercato compisse di nuovo valutazioni a spanne, ciò potrebbe avere conseguenze negative sul comparto obbligazionario. Da subito. 

«Il processo di normalizzazione della politica monetaria dell’Eurozona impatterà sul mercato dei Bund, spingendo i rendimenti dei titoli a scadenza decennale a un rialzo stimato fra i 30 e 70 punti base entro al fine del 2018», hanno previsto gli analisti di Natixis. E qualche spinta al rialzo ancorché non letale ieri il nostro spread l’ha già vissuta. Stavolta siamo davvero a un punto di svolta, perché chi investe avrà due giorni di mercati chiusi per passare al microscopio e rimuginare su ogni singola sillaba pronunciata da Draghi a Jackson Hole domani: per una volta non serve fare troppi scenari, l’apertura di lunedì mattina ci darà subito qualche risposta, in attesa del board di settembre della Bce. Una cosa però posso dirvela, tutta in chiave interna: qualcuno ieri ha provato a legare l’ampliamento del nostro spread al “no” arrivato dalla Commissione Ue alla proposta avanzata da Silvio Berlusconi di una doppia moneta per l’Italia. Sono balle, poiché il Cavaliere per primo sa che trattasi di idiozia impraticabile. E inutile. I mercati, quelli che i soldi li fanno e li perdono davvero, certe idee balzane non le prezzano nemmeno. Le ignorano. E non mi pare che cercare di farci sopra campagna elettorale sia serio. Né intelligente, da parte di nessuno.