Il grande giorno di Jackson Hole è arrivato: Mario Draghi stupirà il mondo o lo deluderà a morte? Sapremo qualcosa di più riguardo il Qe della Bce o le carte resteranno coperte come non mai, costringendo magari la Fed a qualche mossa? Domani mattina scopriremo qualcosa di più. Ma al di là dei giochi di prestigio e dei giri di parole da abile affabulatore, Mario Draghi sa che c’è una realtà dietro il sipario che continua a spingere per debuttare sul palcoscenico e rendersi visibile alla folla. Nel suo discorso di Lindau, di cui vi ho parlato ieri, il numero uno dell’Eurotower ha detto che evidenze sperimentali economiche hanno dimostrato la bontà del Qe come intervento emergenziale e strutturale: volendo scomodare la dottrina Greenspan – «Quando le cose si fanno davvero serie, l’obbligo per un banchiere centrale è quello di mentire» -, possiamo dire che Draghi è un banchiere centrale fatto e finito. Di più, un prototipo. 



Il perché lo mostrano questi due grafici, i quali ci dicono come non solo rendimenti e volatilità attorno ai bond sovrani giapponesi si siano schiantati ai minimi storici con l’avvento dell’Abenomics, ma anche che i volumi si sono ridotti a livelli quasi senza precedenti. E cosa significa questo? Che nessun detentore privato di bond si azzarda nemmeno più a respirare, senza aver avuto prima istruzioni dalla Banca centrale. Gli acquisti lordi di titoli nipponici da parte di investitori sono calati del 11% a 12,6 triliardi di yen (115,1 miliardi di dollari) nel mese di luglio, il minimo da marzo 2016, stando a dati ufficiali della Japan Securities Dealers Association resi noti lunedì: su una rolling-base a 12 mesi, il volume attuale è il più basso di sempre. 



Come nel 2014, gli investitori stanno dicendo chiaramente una cosa: il mercato obbligazionario giapponese è morto. Così come quelli azionario e forex, d’altronde. È questo uno dei grandi risultati del Qe rivendicato da Draghi? A cosa ha portato, infatti, il brillante esperimento di monetizzazione del debito in atto in Giappone? Semplice, il programma di acquisto senza precedenti della Bank of Japan ha letteralmente paralizzato il mercato e congelato il trading di titoli di Stato sovrani, costringendo lo yen a fluttuare in un range di oscillazione tra i più ristretti di sempre e mettendo un freno all’attività del mercato azionario. Bel risultato, non vi pare? «Tutti i mercati sono ormai tranquilli e silenziosi da tempo, avevamo già conosciuto l’impatto della dominazione della Bank oj Japan sui titoli di Stato lo scorso anno ma recentemente anche i partecipanti ai mercati azionario e valutario sono calati notevolmente, una volta che quegli assets hanno cominciato a muoversi entro ranges sempre più ristretti», ha dichiarato Daisuke Uno, chief strategist alla Sumitomo Mitsui Banking Corp. di Tokyo. Di più, «i flussi sia sul lato della vendita che dell’acquisto continuano a calare e la volatilità in continua diminuzione è un problema davvero serio per traders e dealers che non riescono a ottenere capital gains», ha dichiarato Takehito Yoshino, chief fund manager alla Mizuho Trust & Banking Co., una divisione della terza banca d’affari più grande del Giappone. 



Il problema è che con sempre più partecipanti del mercato che gettano la spugna, stante l’intenzione del governo di proseguire con acquisti onnivori senza una fine determinata e certa, il risultato di questo mercato centralizzato e, di fatto, manipolato a livello politico sarà un’ulteriore perdita della funzione di mercato stessa e la creazione delle condizioni per un crash, una volta che la BoJ e le altre Banche centrali smetteranno di operare in questo modo. Il perché è presto detto: se i mercati money e bonds perdono la loro capacità di prezzare il credito sulla base delle future aspettative sui tassi di interesse e sulla ratio di domanda e offerta, il rischio di un picco improvviso della volatilità dovuto a shock esterni come una crisi finanziaria sale in maniera notevole. 

Tradotto in italiano da fine agosto, quando il caldo ci ha tolto ormai ogni energia: in un mondo dove operano solo le Banche centrali, qualcun altro è destinato a dimenticare su cosa sta operando. E, di conseguenza, a vendere. Le palle di neve che diventano valanghe, nascono così. Per questo Draghi tenta di restare al coperto fino alla fine, fino all’ultimo istante. Spera in un miracolo keynesiano? No, con ogni probabilità ormai spera nel classico incidente che attende di accadere. E potrebbe succedere prima del previsto, perché al netto delle tensioni geopolitiche e dei fronti di crisi – ultimo dei quali aperto tre giorni fa da Donald Trump con la decisione di cedere al Pentagono e inviare altri soldati in Afghanistan -, potrebbe essere questo grafico a suggerirci quale potrebbe essere il detonatore di una crisi che vedrebbe costretta la Fed a bloccare qualsiasi piano di politica monetaria in atto e, facilmente, di invertirlo. 

Le possibilità di uno shutdown totale sul tetto di debito Usa stanno infatti salendo all’impazzata e prezzando una incapacità di accordo entro fine settembre. Ovviamente questo non vuol dire default tecnico degli Usa e anche la struttura attuale del Vix ci parla di una crisi entro fine anno, ma resta l’imprinting sul mercato che, se unito proprio alla capacità di Draghi di mantenere un’ottimistica incertezza, potrebbe evitare uno scossone d’autunno che difficilmente sarebbe gestibile in maniera ordinaria. Non a caso, poi, proprio ieri è tornato in grande stile lo scandalo Russiagate, con la scoperta – un po’ tardiva, ma con timing eccezionale – della mail che dimostrerebbe la volontà del Comitato Repubblicano di organizzare un meeting fra Donald Trump e Vladimir Putin in West Virginia prima del voto delle presidenziali. L’ennesima bufala, statene certi, ma tutto fa brodo quando nel piatto rimane davvero poco da mangiare, stante le distorsioni delle Banche centrali perpetuatesi per anni e anni. Ora, c’è il conto da pagare. 

Sono forse questi gli straordinari risultati dei Qe in giro per il mondo di cui ha menato vanto mercoledì Draghi a Lindau? Se sì, per oggi a Jackson Hole è meglio che prepari una lezione più convincente.