«Il sistema finanziario è sostanzialmente più sicuro e qualsiasi cambio alle regole decise dopo la crisi finanziaria dovrebbe essere modesto». Ecco le prime parole pronunciate dal presidente della Fed, Janet Yellen, intervenendo a Jackson Hole, in quello che è sembrato un nemmeno troppo indiretto riferimento all’intenzione dell’amministrazione Trump di allentare le norme sulla finanza. Il tempo, si sa, è tiranno, quindi per esigenze redazionali leggerete il resto del discorso della Yellen e – soprattutto – lo speech di Mario Draghi stamattina, ma non in questo articolo. Poco male, quella frase iniziale dice tutto. Svela in pieno l’ipocrisia che sta alla base di quello che chiamano libero mercato e che altro non è se non un sistema politicamente manipolato per garantire unicamente gli interessi di Wall Street e del suo azionista di riferimento: il comparto bellico-industriale.
Già, perché con il petrolio inchiodato in area 45-50 dollari e destinato a non smuoversi, salvo stravolgimenti geopolitici di primaria importanza (le riserve strategiche cinesi continuano a operare un off-set troppo forte rispetto a qualsiasi azione sul lato dell’offerta), sono missili e aerei a fare la parte del leone. Oltre, ovviamente, a quella bolla tech che sta gonfiando il Nasdaq in stile 2000 e il comparto automobilistico. Parleremo del warfare dopo, mentre della Silicon Valley e del suo bluff è inutile parlare, basta vederne gli utili per azione: mentre potrebbe risultare illuminante per molti di voi questo grafico relativo alle auto. Nella fattispecie, il quarto produttore al mondo per market cap, il fenomeno Tesla. Qualcuno, genialmente, ha cominciato a tracciare la correlazione fra il bond del produttore di auto elettriche e quello sovrano dell’Ucraina, spiegando in questo modo malizioso la sua scelta: entrambi sono sostenuti dal governo Usa. Difficile dargli torto, visto che gli incentivi da un lato e le munifiche elargizioni del Fmi dall’altro, corroborano questa tesi poco ortodossa. E, in effetti, il pattern è stato molto simile tra i due assets, ma, come mostra il grafico, negli ultimi giorni detenere obbligazioni di Tesla è più rischioso di detenere bond ucraini.
E cosa ci dice questo? Primo, il mercato automobilistico Usa, il più sussidiato al mondo, comincia a pagare sul serio la sovra-produzione da stimolo monetario e anche le “eccellenze” come Tesla soffrono. Secondo, ce lo dice questo altro grafico: proprio attraverso le politiche di stimolo, le Banche centrali – Fed in testa – hanno talmente compresso gli spread nei mercati sviluppati da far partire una vera caccia grossa globale al rendimento nei mercati emergenti: finora tutto è andato bene, perché gli Stati Uniti sono riusciti a manipolare al ribasso il valore del dollaro, ma se qualcosa facesse impennare il biglietto verde, visto che ci vendono numeri da record per l’economia e la stessa Fed sta alzando i tassi, cosa accadrebbe a quella quantità di denaro parcheggiata in mercati sovra-esposti all’indebitamento in biglietti verdi?
Di tutto questo, la Yellen non si sente minimamente in colpa, essendo la donna che guida la Banca centrale più potente del mondo e che sovraintende alla moneta benchmark globale? Perché quella sibillina frase sulla regolamentazione? Per ciò che vi ripeto come una macchinetta dallo scorso novembre, ovvero che Wall Street e il comparto bellico-industriale hanno permesso la vittoria di Donald Trump perché avevano bisogno di un capro espiatorio per la prossima crisi in arrivo che non mettesse in dubbio la retorica da Qe finora spacciata. Ovvero, la prossima crisi deve essere imputata e imputabile, a livello di opinione pubblica, unicamente a Trump, non a Obama, la Fed o Wall Street stessa: finora, non si era presentata occasione, troppe briciole riportavano al periodo precedente. Ora, invece, la scusa è pronta, servita su un piatto d’argento dallo stesso Trump e dalla sua stupidità sesquipedale (o dal suo essere complice, essendo uno che con il mercato ci campa, tertium non datur): la minaccia della Casa Bianca di shutdown sul tetto di debito, ovvero dirsi pronto a paralizzare la spesa del Paese – quindi il suo funzionamento – pur di non cedere a un compromesso parlamentare che bocci il progetto del muro con il Messico.
Per ora, con Jackson Hole in corso e troppe variabili geopolitiche che si stanno sviluppando (Corea del Nord, Siria, Afghanistan, Venezuela), nessuno fa caso a questa ipotesi di default tecnico, ma state certi che al momento adatto, vedi metà settembre, il combinato congiunto fra Russiagate e dibattito sullo shutdown sapranno regalare emozioni al mercato. Non a caso, questo grafico ci mostra come siano bastate due parole della Yellen per spedire il dollaro ai minimi del maggio 2016: non a caso, a spingere al ribasso quel cross ci ha pensato la seconda frase di interesse pronunciata dalla Yellen, ovvero «un eccessivo ottimismo che si respira» e la messa in guardia dalla «presenza eccessiva di algoritmi sui mercati». E se ne accorge soltanto adesso? Ve l’ho detto e ve lo ripeto: siamo di fronte a una nuova ondata di crisi determinata dalle politiche sciagurate delle Banche centrali e la Yellen non può né chiamarsi fuori dal novero delle responsabilità, né tantomeno millantare mercati stabilizzati post-crisi, visto che basta guardare al livello di leverage globale raggiunto dopo il crollo del 2008, 52 triliardi di dollari in più.
Ora poi, la missione per disarcionare Trump è diventata più semplice, visto che alla trappola finanziaria si è unita quella bellica: avendo dato carta bianca al Pentagono sulle missioni all’estero lo scorso aprile, Trump non poteva esimersi dall’aumentare il numero di soldati in Afghanistan e ora, con circa 15mila boots statunitensi sul campo, è ovvio che partirà un conflitto in piena regola. Il che significa commesse militari, contractors, concessioni in loco per sfruttamento di materie prime (vedi le terre rare) e un bel controllo militare sulla prima voce del Pil afghano, l’oppio che è in realtà oro più per le industrie farmaceutiche del dolore che per il narcotraffico. Siamo di fronte a un’entropia faustiana perfetta, oltretutto con un asso nella manica: riuscire a fare il peggio possibile a livello finanziario e bellico a uscirne puliti.
Primo, perché vedrete che le cronache post-Jackson Hole vedranno la Yellen dipinta come l’anti-Wall Street e Trump come la radice di tutti i mali e, secondo, perché casualmente ieri un commando dell’Isis ha fatto strage in una moschea sciita di Kabul. È il libero mercato in stile Usa, bellezza! In tal senso, mi permetterete una digressione personale sul finale. Ho cominciato la mia storia giornalistica tanti anni fa a La Notte, storico quotidiano milanese e palestra per ogni cronista, ma la mia esperienza più segnante, non fosse altro per l’età e perché ho cominciato a occuparmi di economia ed esteri, l’ho fatto a ridosso dei miei 20 anni a Liberazione, quotidiano di quella Rifondazione Comunista all’epoca capeggiata da Fausto Bertinotti. Ho splendidi ricordi di quell’esperienza, umana e professionale e riconosco a Fausto di aver sempre seguito con attenzione e affetto la vita del quotidiano, pur nella cronica mancanza di fondi. Ma c’era la passione e a 20 anni, spesso, ti basta.
Ero spesso e volentieri in disaccordo con lui, pur non potendomi definire cossuttiano: all’epoca, la mia idea di società ideale era la Ddr, almeno ci capiamo. Ho seguito quindi con interesse l’intervento, molto apprezzato e seguito, di Fausto Bertinotti al Meeting e una parte mi ha colpito particolarmente: «Sarà significativo che la mostra sul 1917 la faccia il Meeting di Cl e non una forza politica di sinistra… Questo perché nella storia di Cl la tradizione è viva, mentre certa sinistra se ne è disfatta diventando colpevole di una damnatio memoriae… La fede è il problema di sapere dove andare. Nel movimento operaio, come nella Chiesa». Sottoscrivo tutto, ma vorrei, dopo tanti anni e tanti cambiamenti incorsi con l’età, a questo punto una risposta da Fausto Bertinotti relativa alla critica più dura che gli mossi in quegli anni. Ovvero, valeva davvero la pena di distruggere Rifondazione e ciò che poteva rappresentare, per una sinistra che non rinnega la sua storia, ma la rielabora seriamente e coerentemente, solo per inseguire il massimalismo anche spesso ignorante e teppistico di movimenti e centri sociali? La lotta a quella che veniva bollata con infamia unicamente come ortodossia deteriore e anti-storica, in nome del cambiamento necessario in una società che si apriva al futuro e alla globalizzazone, non si è rivelata – nella sua iconoclastia rabbiosa e un po’ sciovinista – unicamente l’anticipazione dell’attuale damnatio memoriae di massa a sinistra? Se vorrà rispondermi, dopo tanto tempo e tante cose cambiate, mi farà immenso piacere.