Qualcosa si muove sullo scacchiere politico-finanziario, mentre comincia il conto alla rovescia elettorale. La vicenda Telecom (Tim) e quella Fca appaiono – e sono – separate e la prima è assai più d’impatto della seconda sugli equilibri italiani. Tuttavia il disimpegno finale della famiglia Agnelli dalla propria storica casa automobilistica potrebbe essere curiosamente contemporaneo al riassetto finale dell’ex gigante pubblico delle tlc italiane: che vent’anni fa il governo Prodi 1 aveva offerto proprio alla famiglia torinese in sede di privatizzazione. E fra il dossier Tim e quello Fca forse potrebbe forse allacciarsi anche che un sottile filo attuale, ma andiamo con ordine.
Nell’apparente quiete ferragostana, è filtrato l’orientamento del governo italiano a portare la rete Telecom fuori dal gruppo di cui Vivendi è oggi azionista di riferimento. La versione mediatica parla di vincolo/condizione posto da Roma a Tim, laddove il finanziere Vincent Bolloré sta duellando con l’Agcom italiana sull’influenza che Vivendi ha sul gruppo. La realtà è tuttavia parzialmente diversa da quella raccontata in termini di confronto fra neo-nazionalismo economici a colpi di golden share sul confine Italia-Francia. Da un lato Palazzo Chigi deve mantenere il presidio Nato su alcune sezioni d’interesse strategico della rete: prima fra tutte quella che attraversa il Mediterraneo. Dall’altro lato il governo Renzi ha avviato un piano nazionale banda larga facendo leva su Enel (tuttora a controllo statale), ma potendo difficilmente prescindere dalla rete del vecchio monopolista statale.
Su un terzo versante, Vivendi stessa non è pregiudizialmente disinteressata a cedere la proprietà di una rete di prima generazione, totalmente da rinnovare con ingenti investimenti. L’incasso da un’eventuale vendita della rete a OpenFiber (soggetto pubblico-privato cui parteciperebbe la Cassa Depositi e Prestiti) alleggerirebbe il debito di Tim, ma soprattutto fornirebbe il gruppo tlc di munizioni per acquisizioni nel comparto media-tech. Ed è un fatto che la stessa Vivendi sia oggi impegnata anche in Mediaset: in un apparente “scontro” con Fininvest, che cela tuttavia decenni di buoni rapporti fra Bolloré e Silvio Berlusconi e un interesse oggettivo dell’82enne Cavaliere a un approdo per il Biscione.
Lo stato delle cose sembra comunque riprodurre quello di dieci anni fa: quando il governo Prodi 2 bloccò la vendita della rete Telecom a controllo Pirelli alla Cdp e sfumò la sua trasformazione del polo in “media company”, prevedibilmente aperta ad aggregazioni con la stessa Mediaset o con Rcs. Oggi è il governo che sembra spingere per la ristrutturazione, che non sarebbe politicamente neutrale se sfociasse anche in una trasformazione sostanziale dello status di Silvio Berlusconi a cavallo delle elezioni 2018. Il Cavaliere e la sua famiglia non sarebbero più azionisti-gestori di Mediaset. Fininvest prevedibilmente liquiderebbe una parte della propria quota di maggioranza e concambierebbe un’altra parte in una partecipazione finanziaria in Tim. Ma un gigante-media di livello europeo attirerebbe presumibilmente l’interesse di altri investitori e operatori del settore: innescando un riassetto complessivo del settore. È a questo punto che – si congettura già – una famiglia Agnelli definitivamente trasformata in grande investitore finanziario e già molto orientata al settore media (Gedi in Italia, Economist nel mondo) potrebbe puntare su Tele-Set con più decisione rispetto al “nocciolino” con cui l’Avvocato investì nella prima Telecom privatizzata. Per ora tuttavia, il nodo del caso Tim 2017 è la valutazione da assegnare alla rete: che OpenFiber rileverebbe con quattrini pubblici o para-pubblici.