La Cina, tramite i suoi conglomerati in parte pubblici e in parte privati (ma pur sempre a direzione pubblica) ha lanciato una vera e propria campagna d’acquisti in Europa. Le ragioni vengono illustrate con precisione dal Prof. Janghn Zen dell’Università di Londra in un saggio apparso nell’ultimo fascicolo del Journal of Common Market Studies: considerata per oltre un millennio un Paese a basso livello di sviluppo, il Celeste Impero ambisce a essere il “primo” tra i “grandi” e, dotata di grandi risorse finanziarie, ha lo strumento per acquisire tecnologia e management da chi li possiede.
Entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) nel 2001, la Cina collocò le sue esportazioni su numeri altissimi: qualcuno, correttamente, chiese di esplorare la possibilità di utilizzare gli strumenti giuridici che la Wto contempla in questi casi (per esempio, “market disruption as a result of rapidly increasing imports”), ma prevalse il sogno secondo cui la finanza cinese avrebbe contribuito alla crescita europea, senza farci perdere il primato tecnologico e manageriale. Lo sottolinea Dario Ciccarelli, attualmente alto funzionario del ministero dell’Economia e delle Finanze, nonché autore di saggi sul commercio internazionale e sull’Unione europea, ma in passato tra i negoziatori italiani presso la Wto: c’è uno strumento per cercare di opporsi o almeno di limitare il danno, Si tratta dell’accordo internazionale Trade-related investment measures. Esso parte integrante degli accordi della Wto. È da questo accordo che si deve partire se si vogliono davvero disciplinare gli investimenti cinesi.
L’accordo sottolinea che “dobbiamo riaffermare l’indiscussa primazìa del sistema commerciale multilaterale… All’avvio del sistema multilaterale di commercio internazionale, gli accordi preferenziali erano un’eccezione e la principale fonte di accordi preferenziali era la Comunità europea. La risposta alle iniziative preferenziali europee fu a quel tempo: il lancio dei round multilaterali per l’apertura degli scambi internazionale. Il rischio è un sistema commerciale internazionale caratterizzato da regole non più condivise da tutti, ma in cui i poveri e i deboli devono temere ‘un ritorno alla legge della giungla’. Stiamo ‘deglobalizzando’ il sistema commerciale internazionale?”, chiese Renato Ruggiero nel lontano 2005, quando rivestiva la carica di Direttore generale della Wto.
È domanda valida ancora oggi, perché la risposta alla globalizzazione (e a fenomeni come quello dell’assalto cinese alle imprese di punta europee) può venire soltanto dal diritto internazionale. Le norme ci sono, occorre applicarle bene. Ciccarelli aggiunge una notazione “tecnica”: gli organi Ue affermano che il diritto internazionale non ha rilevanza sul territorio degli Stati che aderiscono all’Ue (“è giurisprudenza costante che, tenuto conto della loro natura e della loro economia, gli accordi Wto non figurano in linea di principio tra le normative alla luce delle quali la Corte controlla la legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie”, Corte di Giustizia Ue: sentenza 23 novembre 1999, causa C-149/96; ordinanza 2 maggio 2001, causa C-307/99; sentenze 12 marzo 2002, cause riunite C-27/00 e C-122/00; 9 gennaio 2003, causa C-76/00; 30 settembre 2003, causa C-93/02).
La Corte Costituzionale italiana ha risposto con chiarezza: “Nonostante il differente orientamento della giurisprudenza comunitaria, i protocolli di cui all’accordo Gatt (predecessore della Wto), grazie alle leggi di ratifica ed esecuzione, attribuiscono ai singoli diritti pienamente tutelabili dinanzi alla giurisdizione nazionale” (Tribunale di Napoli, 12 novembre 1984, Soc. Montedison C. Min. fin.).