Cosa vi avevo detto nel mio articolo di sabato? Il tanto atteso simposio della Fed a Jackson Hole, quello che doveva fungere da spartiacque per i mercati negli ultimi quattro mesi dell’anno e porre le basi per le aspettative monetarie sul 2018, si è tramutato nell’ennesimo spot contro Donald Trump, il capro espiatorio in fieri della prossima crisi. Janet Yellen, infatti, ha posto sul tavolo la questione delle riforme del sistema finanziario, a suo dire messo a repentaglio dalla strisciante deregulation voluta dalla Casa Bianca a favore delle banche. Mario Draghi, invece, dovendo tenere le carte coperte rispetto al futuro del Qe europeo, ha giocato il jolly del rischio protezionismo come freno alla ripresa globale, a suo dire sempre più sostenuta e sostenibile. Un classicissimo buono per tutte le stagioni, come un abito blu.
Stanno diventando davvero troppo scontati e questo è un brutto segno: perché significa che le armi nell’arsenale stanno davvero finendo stavolta e, prima o poi, si sarà costretti a fare qualcosa di concreto. Con ciò che esso comporta sui mercati. C’è una cosa però che nessuno ha detto a Jackson Hole, pur essendone certamente a conoscenza, visto che ieri è diventata di dominio pubblico: chi sta davvero e unicamente beneficiando della cosiddetta ripresa globale che Donald Trump starebbe mettendo a rischio con le sue scelte? Stando a quanto emerge dalla 15ma edizione del Janus Henderson Global Dividend Index, da aprile a giugno i dividendi globali hanno raggiunto il record storico trimestrale di 447,5 miliardi di dollari, il 5,4% in più rispetto all’anno precedente. L’aumento sottostante è stato del 7,2%, tenendo conto delle oscillazioni del cambio, dei dividendi straordinari e di altri fattori. Si tratta la crescita più rapida dal 2015, con nuovi massimi negli Stati Uniti, in Giappone, Svizzera, Paesi Bassi, Belgio, Indonesia e Sud Corea. Insomma, boom di cedole nel secondo trimestre dell’anno.
E cos’è il Janus Henderson Global Dividend Index? Si tratta di un indice che, con cadenza trimestrale, analizza i dividendi distribuiti dalle prime 1.200 società per capitalizzazione di mercato per verificare l’andamento dell’economia globale e delle diverse aree geografiche. I risultati registrati in questi tre mesi, segnala l’analisi, consentono una revisione al rialzo delle stime per l’intero anno: il totale passa infatti a 1.208 miliardi di dollari, per un aumento complessivo del 3,9%. E dove si “stacca” di più? A fronte di un’Europa – Regno Unito escluso – che domina la scena mondiale, col 40% del totale dei dividendi per un valore complessivo di 149,5 miliardi di dollari (+1,1% su base annua), l’Italia – guarda caso – delude però le aspettative, segnando un calo rispetto allo stesso periodo del 2016.
Stando a quanto riportato nel report, la flessione fatta registrare dal dato italiano, che scende del 19,1% a 8,3 miliardi di dollari, «riflette principalmente il passaggio di Enel a una distribuzione semestrale e l’annullamento delle distribuzioni di Unicredit». I dividendi sottostanti, precisa comunque il documento, sono scesi solamente dello 0,8%. Per finire, andando a scandagliare le altre aree geografiche, gli Stati Uniti mettono a loro volta a segno un risultato da record, attestandosi a 120,7 miliardi di dollari (+10,1%). Il Regno Unito presenta invece un calo del 3,5% a 32,5 miliardi, mentre il Giappone va sui massimi con le distribuzioni in progresso del 4,2% a 31,6 miliardi e il sottostante che balza dell’11,8%. Complessivamente positivo, seppure eterogeneo, lo scenario sui mercati emergenti. Per quanto riguarda infine le industrie e i settori, la crescita appare infine generalizzata, con la sola eccezione delle telecomunicazioni, che hanno registrato un calo delle distribuzioni.
Bene, cosa ci dice questo dato? Che Draghi e la Yellen hanno lavorato egregiamente fino a qui, ma per le aziende e per chi investe, non per l’economia reale e per il lavoro. Basta vedere i dati: a fronte di cedole e dividendi record, la ratio di investimenti delle aziende europee rimane bassissima, perché il denaro introitato viene usato unicamente per due finalità: il puntuale dovere verso gli investitori, appunto e il maquillage dei bilanci. Spese per investimenti diretti, CapEx, ammodernamenti impianti e ricerca, ovvero ciò che crea crescita, sviluppo e occupazione? Zero. O poco più. Ecco spiegato, ad esempio, il dato della disoccupazione giovanile portoghese, spagnolo e italiano. E senza andare Oltreoceano, dove il fatto che ormai Goldman Sachs controlli la Casa Bianca e da febbraio anche la Fed è sufficiente per capire come nulla sia cambiato dagli anni di Obama, basta guardare all’Europa: chi consente alle aziende di staccare le cedole come fossero sanissime? I soldi della Bce, la quale consente di emettere debito con pressoché qualsiasi rating senza assili di mark-to-market o price discovery, denaro che finisce per dar vita al più classico degli schema Ponzi: si pagano interessi e cedole dei primi entrati coni soldi dei secondi e così via, finché non entra più denaro, il meccanismo grippa e tanti saluti.
Peccato che nel nostro caso il Bernie Madoff della situazione non sia un bancarottiere privato che tenta l’ennesima truffa ma la Bce! La quale, di fatto, continua a pompare soldi dal nulla in un sistema che sta in piedi solo grazie a quelle continue trasfusioni: peccato che esattamente come gli inflows che finiscono, quando si sparge la voce che la truffa è dietro l’angolo, così anche l’Eurotower, prima o poi, dovrà dire “stop” alla politica degli acquisti onnivori e dei tassi sotto zero: e cosa accadrà? Il bello è che il fautore di questa politica ha avuto anche il coraggio di denunciare il protezionismo di Trump; quello che sta operando attraverso gli acquisti di bond corporate, cos’è di fatto, se non addirittura un finanziamento diretto? È tutta una colossale presa in giro. Peccato che stavolta, proprio perché la lattina è stata calciata in avanti troppe volte, temo sia prodromica a un qualcosa di serio. O, comunque, di drastico.
Sul finire della scorsa settimana, con tre anni di anticipo sull’agenda originaria, la Bundesbank ha rimpatriato tutto l’oro che aveva stoccato all’estero (Fe di New York, Bank of England e Banque de France) e ha reso noto che in primavera offrirà a mercato e pubblico le cifre ufficiali al 31 dicembre 2017. Francoforte deve o vuole rassicurare qualcuno riguardo le sue riserve auree? E perché? L’unica cosa che mi viene in mente è una necessità di garanzia: su cosa, però? Non certo un prestito-ponte di grandi dimensioni, piuttosto la garanzia di riserva per un gold-backed riguardo un futuro marco che dovesse tornare in circolazione. Non sarà, allora, che quei dati fantasmagorici su cedole e dividendi siano il più classico dei last hurrah finanziari, ovvero godiamocela e prendiamo tutto il prendibile, visto che la festa stavolta sta davvero terminando? E, badate bene, non vale solo per l’economia e la finanza. Temo infatti che passerà sotto silenzio la notizia più importante emersa ieri: il governo tedesco boccia il Regolamento di Dublino, che impone l’esame delle richieste d’asilo al primo Paese di sbarco e insiste sulla redistribuzione dei migranti in tutti i paesi dell’Unione europea.
No, non scherzo e non ho bevuto. Lo ha detto la cancelliera, Angela Merkel, in un’intervista con la Welt am Sonntag ed ecco la sua dichiarazione precisa: «Non è possibile che la Grecia o l’Italia da sole debbano sopportare tutti gli oneri solo perché la loro posizione geografica è quella che è. Il meccanismo deciso a Dublino ha sovraccaricato paesi come l’Italia e la Grecia». Forse è la Merkel ad aver bevuto. O forse qualcosa sta covando pesantemente in ambito europeo, visto che nel silenzio agostano molto tensioni sottotraccia sono state silenziate ad arte, non ultima l’ammissione di Donald Tusk relativa alla volontà sempre crescente nel suo Paese, la Polonia, di seguire l’esempio britannico e andarsene dall’Europa.
E attenzione, perché con oggi riparte l’attività ufficiale della politica europea. Già oggi si terrà un mini-summit sul futuro del progetto europeo e l’emergenza immigrazione a Parigi, mentre riprendono a Bruxelles i negoziati sulla Brexit: dopo quasi un mese di pausa estiva (saranno stati stanchi, in effetti), l’Ue si rimette in moto, anche se in realtà bisognerà attendere il mese di settembre per vedere la macchina comunitaria funzionare nuovamente a pieno regime. I primi due appuntamenti hanno anche un valore simbolico: oggi a Parigi, dopo un tour nei paesi dell’Est, Emmanuel Macron riunirà Angela Merkel, Paolo Gentiloni e Mariano Rajoy per discutere del futuro dell’Europa appunto, mentre a Bruxelles inizierà il terzo round di negoziati sulla Brexit tra il capo-negoziatore Ue, Michel Barnier, e la sua controparte britannica, David Davis. Giovedì e venerdì, poi, la Commissione si riunisce in un seminario per preparare il discorso sullo stato dell’Unione che il presidente Jean-Claude Juncker pronuncerà il 13 settembre davanti all’Europarlamento e che dovrebbe servire da programma di lavoro per i prossimi 12 mesi.
Certo, fino alle elezioni del 24 settembre in Germania non si muoverà concretamente foglia, ma attenzione a questa attività para-ufficiale, perché l’uscita della Merkel – a emergenza migranti formalmente finita, vista anche la stagione estiva che va verso la fine e l’improvviso impegno della Libia – potrebbe nascondere sorprese. E, soprattutto, attenti a un appuntamento che nessuno sta sottolineando: dopo aver incontrato a Sochi il premier israeliano, Benjamin Netanyauh e il ministro degli Esteri vaticano, monsignor Pietro Parolin, domani Vladimir Putin sarà ospite ufficiale di Viktor Orban a Budapest, formalmente per l’inaugurazione di un torneo internazionale di judo. Ma essendo il premier magiaro la punta di diamante del cosiddetto gruppo di Visegrad in seno all’Ue (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca) ho la netta impressione che qualcosa stia bollendo in pentola a Est. E che abbia a che fare con la strana apertura filo-italiana della Merkel su migranti e Libia.
Come vedete, da Jackson Hole passando per Bruxelles e arrivando a Budapest, sottotraccia stanno accadendo movimenti tellurici di enorme importanza. Peccato che i giornali parlino solo di Trump e delle sue gaffes.